Regia di Laurence Dunmore vedi scheda film
L'idea superlativa alla base del film sta nell'aver raffigurato il parallelismo “sincronico-acausale” fra l'insorgenza della patologia e il nascere dell'amore, letale quanto un'infezione venerea. Ai rispettivi ingravescenti decorsi fa da sfondo la progressiva e inesorabile disfatta del razionalismo.
Siamo agl'albori dell'epoca illuminista, ma in antitesi ad essa tutta l'ambientazione si presenta con una simbologia idiosincratica: la fotografia cupa e desaturata, assieme all'atmosfera perennemente brumosa, conferisce alle scene un tono decadente che va di pari passo con lo scacco alla ragione patito dal protagonista. Il cinico libertino, indifferente alla vita e per questo alla perpetua ricerca di esperienze che lo emozionino, incontra fatalmente l'attrice Elizabeth Barry, se ne invaghisce e con lei intraprende una relazione. L'effetto incontrollabile e destabilizzante della stessa lo porterà a tentare di dominare il suo sentimento e a sfuggirgli fino a quando, sopraffatto dagli eventi e ormai reso irriconoscibile dalla malattia (del fisico e dell'animo), non decide di tornare dalla donna per confessargli il suo amore, destinato tuttavia a non avere seguito.
Per quanto un'esistenza possa essere votata alla costruzione finzionale d'un ordine artificioso, come pare evocare la sequenza platealmente metateatrale dell'epilogo, arriva sempre il momento in cui bisogna fare i conti con la realtà “insensata” delle cose (“la vita non è un susseguirsi urgente di ora, ma un infinito sgocciolare di perché dovrei”). A conferma di tale nemesi le parole proferite sul letto di morte, all'età cristica di 33 anni, dal conte di Rochester: “ho provato a dire la verità e sono stato tradito”. Termina così l'ineffabile calvario dell'uomo, per nulla lenito dallo sforzo (coatto) di riconciliarsi con Dio.
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