Regia di Laurence Dunmore vedi scheda film
“Con il mio arnese, governerò il paese”. Una dichiarazione di intenti, poco programmatica, ma molto intellettuale. L’idea di un mondo fallocentrico, che già lo è ma non nei termini di Wilmot/Depp, è irriverente stuzzicante. Così come la dichiarazione del libertino d’Inghilterra, quel “Io non vi piacerò”, che apre e chiude il film. Dichiarazioni. Manifesti. Intenzioni. Sono in rotta con il mondo, non mi capisce, mi nega, lotta contro di me, quindi irriverisco, scandalo, provoco, sovverto, desottoregimo (negazione di sottoregimere, mettere sotto regime), disobbedisco, dissento, mi dissocio e quantaltro in nome di un’autodistruzione esemplare. Il diritto di farsi male c’è. Non bisogna ascoltare quei politici conservatori che per frenare le libertà individuali (l’uomo libero è pericoloso) s’inventano il diritto di salute, la sicurezza e altre storie vecchie come il culo che le ha cagate fuori. L’espressione colorita è da leggersi come una licenza alla John Wilmot, giustificata e non gratuita. Così, grazie ad un ruolo bellissimo, Johnny Depp si fa nuovamente bandiera della diversità, della tolleranza, del maledettismo anche se ora la sua vita igienica farebbe pensare ad altro. Il suo personaggio, che doveva far invidiare gli uomini e scandalizzare le donne, eppure io non l’ho invidiato forte della mia personale esperienza, è un personaggio che si può solo amare. Se non lo ami esci dalla sala, non è il tuo film. Le mezze misure lasciamole a chi non ha il coraggio di osare, come Wilmot. Strutturato narrativamente con molta efficacia, e realizzato con un certo fascino per l’aspetto terragno e libidinoso della Londra di fine seicento, “The Libertine” è un film che può e deve fare epoca. Non perché sia un capolavoro, ma perché porta in primo piano la struggente lucidità di chi è pronto a lasciarsi morire pur di non farsi uccidere dal mondo, dal sistema, dalla cultura dominante. Wilmot muore a 33 anni, dopo che nessuno credeva in lui, dopo che lo avevano deriso, e dopo che Carlo II se ne lavò le mani condannandolo ad essere se stesso. Il parallelo con la figura di Gesù Cristo non solo è facile, ma obbligatorio. Le anime scomode, le vite pericolose, gli uomini liberi, sono un pericolo per l’ordine costituito. Lo sapevano i farisei, lo sapevano gli inglesi della fine del ‘600, lo sanno oggi tutti i moralisti e benpensanti che portano a morire quelle vite che potrebbero aiutarli a vivere invece sul serio. Johnny Depp, alla sua prova migliore, le agonie finali, piscio rosso e vino versato inclusi, sono i momenti più alti del film, non è più attore, ma icona. Non è più un semplice divo, è immaginario vero e proprio, come chi prima di lui è riuscito a travalicare i confini che separano un film dal Mito. Fanno tenerezza le dediche nei titoli di coda a Marlon Brando e Hunter S. Thompson, anche loro a loro modo dei “John Wilmot” di gran classe.
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