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The Libertine

Regia di Laurence Dunmore vedi scheda film

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La recensione su The Libertine

di (spopola) 1726792
8 stelle

E’ una pellicola buia e disperata che mostra il ritratto impietosamente esibito di un uomo che morirà di sifilide a soli 33 anni dopo aver tentato (senza riuscirci) di spostare con ogni sua azione e atto, i limiti di una morale obsoleta in una Londra putrida e fangosa, specchio fedele del bigottismo dell’epoca in cui le vicende sono ambientate.

“Non vi piacerò e non voglio piacervi”… questa è la spiazzante presentazione, sui titoli di testa, quasi un avvertimento, che John Wilmont invia agli spettatori, così da spianare subito il campo dalla possibilità di improbabili scivolate in compiaciute esibizioni eroticheggianti e scoraggiare il partenza la componente voyeristica di chi è accorso (a torto) alla ricerca dello scandalo licenzioso fine a se stesso che la particolarità del personaggio poteva lasciar supporre in filigrana. Viceversa The libertine è un film cattivo, sporco e insinuante che mette a nudo i conflitti e le diversità che sempre contrappongono le libertà espressive dell’artista alle ragioni del governo e della politica, contese insanabili e difficilmente ricomponibili, ancor più accentuate ed estremizzate nei tempi oscuri e senza speranza, laidi ed opportunistici, dell’Inghilterra travagliata e contraddittoria della seconda metà del 1600. E’ una pellicola intrisa di melma e di sporcizia, buia e sconfortata che ci lascia impotenti e sconfitti, quasi disperati di fronte al ritratto impietosamente esibito fino alla decadenza (anche fisica) e alla morte fra intrighi ed eccessi (Wilmont morirà di sifilide a soli 33 anni dopo aver tentato di spostare con forza e accanimento con ogni sua azione ed atto, i limiti della morale corrente in quella Londra putrida e fangosa, realistica e ossessiva – così lontana dalla oleografica compostezza senza anima e sangue di quella città, storicamente successiva di qualche anno, ripropostaci da Polanski con il suo recente Oliver Twist). “Nessuno può contestare la mia bravura in ciascuna delle tre attività chiave del nostro tempo: scrivere versi, svuotare bottiglie e riempire fanciulle. Oh, sì altri sono riusciti nell’una o l’altra di queste attività , ma riconoscerete che svolgerle tutte e tre simultaneamente richiede una certa destrezza di mano. E in questo davvero non ho eguali”. E’ un’altra definizione progranmatica questa, un punto chiave del percorso esistenziale del protagonista, che illustra bene le caratteristiche debordanti di un personaggio anticonformista ed estremo, scrittore e libertino senza alcun limite o remora, affascinante e pericolosamente tempestoso, fra “genio e sregolatezza”, destinato per definizione alla dissoluzione anche fisica per aver troppo osato. La fonte è un testo teatrale di Stephen Jeffreys (che ha curato anche il bellissimo e pertinente adattamento cinematografico della piece) e fa venire voglia davvero di “recuperare” il testo anche sulle scene (possibile che l’Italia sia ancora e sempre così disattenta ad accogliere e riproporre le provocazioni delle novità più inquiete ed allettanti delle proposte davvero innovative che attraversano la moderna scrittura “drammaturgia” internazionale?) tanti sono gli stimoli visivi e di contenuto che si avvertono prepotenti e compiutamente espressi. Il teatro è uno dei punti cardine dell’opera, ma assolutamente non un limite: la materia è magnificamente assimilata ed espressa con una sintassi cinematografica precisa e nervosa da consumato mestierante nonostante che questa sia la prima prova effettiva del regista in campo strettamente cinematografico (già attivo comunque da tempo e con successo nella produzione di ottimi video musicali).
La sua provenienza e l’esperienza acquista nel settore, permette a Dunmore di “affinare” le tecniche e i ritmi, di dominare con precisione la materia e il linguaggio, di farne insomma un consumato e qualificato “autore” già con questa opera prima, ma non esistono indulgenti concessioni a quel passato prestigioso che qualcuno potrebbe a torto voler ricercare e che avrebbe invece rappresentato – viste le tematiche – un limite davvero rilevante e dequalificato. C’è viceversa una puntigliosa ricerca di “verità storica” anche nella ricostruzione dei meccanismi di quelle rappresentazioni teatrali strettamente legate all’epoca e al momento, che fotografano l’inevitabile evoluzione dei costumi dopo l’avvenuta concessione del privilegio dell’accesso alle scene anche al sesso femminile (basterebbero i confronti con opere recenti sullo stesso tema o su celebrati ed illustri precedenti anche come datazione storica quale il deprecabile “Shakesperare in love” per coglierne le differenze abissali tutte a favore dell’opera di Dunmore), nelle scenografie e nei costumi, nella ambientazione e nelle riprese. L’illuminazione data dallee oscillanti fiammelle delle candele, piena di ombre e angoli nascosti, fa quasi avvertire l’odore della cera e degli stoppini che si fonde con gli acri effluvi dei corpi e delle fogne, ed è davvero magistrale: ricorda molto da vicino, pur rimanendone autonoma (ma non inferiore nel risultato) a quella inarrivabile e stupefacente, addirittura “avveniristica” per i tempi e le possibilità tecniche dell’epoca, del Barry Lindon di Kubrik… e non è davvero un complimento da poco… ma assolutamente meritato questro accostamento emozionale (fotografia preziosamente intrisa di sporco e di lussuria, ruvida e “sudicia” al punto giusto” di Alexander Melman). Ma parliamo adesso della resa attoriale, a partire da Johnny Deep ancora una volta inimitabile e “necessario”, capace di “mascherarsi” e deformarsi senza limite e misura, per confrontarsi ed esporre il lato oscuro di ogni esistenza, quasi una necessità prepotentemente avvertita, ed espressa con straordinaria perfezione stilistica fra eccessi e modificazioni devastanti “facciali” e fisiche, di sgradevolizzare l’impatto affascinante di quell’immaginario divistico che la sua bellezza androgina e ambiguamente conturbante stimola e rende palpabile, quasi una voglia di umanizzazione estremizzata dell’attore che trova stretta la coperta da divo assegnatagli dallo star-system (ed è ancora una volta fieramente vincitore della scommessa). E che dire di Samantha Morton, qui alle prese con un personaggio analogamente ambiguo e contorto, capace di metamorfosi stupefacenti e repentine, sottilmente conturbante e disturbante, o dell’altrettanto brava attrice alle prese col difficilissimo ruolo della moglie, l’unica che accompagnerà Wilmont nella discesa verso il baratro fino alla fine, l’unica che nonostante tutto, con sfuggente determinazione, non si sottrarrà al dovere di curare le piaghe del marito fedifrago ormai perduto e irrecuperabile, e per questo abbandonato da tutti, anche dall’amante, una volta “assetata” di quella linfa vitale ormai in via di esaurimento, ma ormai sazia e disponibile per altri più proficui pranzi da consumare su tavole più illustri ed appaganti? Ma tutti, ogni personaggio o piccola pedina dell’insieme, sono resi e restituiti alla visione con dettagli e annotazioni recitative appropriate e pertinenti, fino ad arrivare al sornione, periclitante Carlo II reso palpitante e controverso tra “fascinazione” e repulsione verso l’esecrato protetto che non accetta i limiti e i giochi imposti dalle regole e dalle convenienze, di un – come al solito superbo - John Malkovich (basta uno sguardo o una “postura” del corpo a fare la differenza e a definirne la grandezza) meritorio produttore dell’impresa e già interprete sulle scene del discusso protagonista. Pellicola difficile e controversa, insomma questo The libertine, che presumo proprio per la sua intransigenza formale priva di concessioni compiaciute, incontrerà notevolissime difficoltà ad imporsi e a farsi davvero apprezzare nell’attuale panorama degradato del cinema internazionale, ma proprio per questo ancor più meritevole di attenzione e di interesse per la serietà degli intenti e i risultati stilistici raggiunti.

Su Rosamund Pike

Perfetta e affascinante, Sensibilmente ambugua fra furori e incapacità a comprendere

Su Stanley Townsend

Assolutamente adeguato al ruolo

Su Paul Ritter

Senza cedeimenti o imperfezioni

Su John Malkovich

Superlativo, come al solito... non ha bisogno di strafare o di gigioneggiare oltre misura per dimostrare la sua bravura

Su Samantha Morton

Già ampiamente apprezzata in precedenza per la sua duttilità espressiva, qui rappresenta una assoluta, affascinante rivelazione. Ambigua e conturbante.

Su Johnny Depp

Un'altra esibizione senza limiti o inibizioni formali di questa meravilgiosa personalità debordante e assoluta, ma capace di "disegnare" eccesse e sgradevolezze come nessun altro sulla piazza. un attore che "osa" l'impossibile, anche... l'impopolarità.... (bravissimo oltre ogni ragionevole dubbio)

Su Laurence Dunmore

Ottimo esordio!!!! Sa dominare alla perfezione alla materia e al mezzo, adeguando lo "stile" all'argomento e lo fa con accortezza approrpiata di un consumato mestierante (nell'accezione positiva del termine ovviamente). Da seguire con attenzione l'evoluzione del suo percorso "artistico".

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