Regia di Lionel Rogosin vedi scheda film
Nella produzione di Lionel Rogosin, classe 1924, Come Back, Africa! film del 1959 (come al solito amo poco l’impropria rititolazione italiana, e quindi preferisco ricordarlo con quello originale, certamente molto più efficace e pertinente) oltre ad essere una pellicola fondamentale di quella che sarà poi ricordata come la corrente del New American Cinema Group, sorta a New York a cavallo degli anni ‘60 attorno alle teorizzazione della rivista Film Culture, è una delle sue opere migliori, più appassionate e riuscite insieme a On the Bovery che lo rivelò nel 1956 e, in misura ridotta, a Good Times, Wonderful Times (Bei tempi, tempi meravigliosi) del 1965.
Se il manifesto ufficiale che sancisce la nascita del movimento è stato definito solo nel 1960 (il regista ne sarà coautore insieme ai fratelli Mekas e ad alcuni altri importanti intellettuali del periodo), Rogosin con il suo modus operandi ne aveva dunque già anticipato magnificamente il senso, visto che nelle sue opere le forme di quel rinnovamento radicale, sicuramente già nell’aria per il clima culturale complessivo fra cinema teatro e musica che si respirava a New York in quegli anni, è perfettamente tangibile anche in ciò che ha prodotto prima che venissero davvero precisati e ratificati “i criteri” ufficiali di appartenenza, e questo titolo (insieme proprio a On the Bovery, e scusate se insisto) ne è la riprova più concreta e certa.
Realizzato clandestinamente in un paese ultrarazzista e reazionario come era il Sudafrica (spesso traendo in inganno, e in qualche modo beffando la polizia) molti anni prima dell’avvento di Mandela (o meglio quando Mandela e tutti quelli che come lui lottavano per tentare di riappropriarsi della propria dignità nonostante le violenze, le vessazioni e i soprusi, erano tenuti segregati in carcere, o venivano barbaramente trucidati) da un regista americano fuori dagli schemi (la lucida spietata analisi di una condizione di vita di On the Bovery era una testimonianza diretta del suo appassionato anticonformismo politico e creativo), aiutato e assistito esclusivamente da organizzazioni negre, Come Back, Africa! è un semi-documentario (passatemi il termine), o meglio ancora un dramma sociale a sfondo documentario realizzato utilizzando un linguaggio misto: episodi narrativi con attori non professionisti e ricostruzioni (comunque desunte da esperienze autentiche) inserite in ambienti e situazioni reali, riprese e montate con lirismo e drammaticità, che racconta la storia di Zachariah, contadino Zulù che la carestia costringe prima a lavorare nelle miniere e poi a stabilirsi nelle bidonville di Johannesburg, e stigmatizza con crudele e appassionata “verità”, narrando le vicissitudini della sua esistenza, la tragedia della emarginazione collettiva di un’etnia.
Ci troviamo dunque di fronte – ve lo assicuro - a un bellissimo, straordinario esempio di cinema verità, realizzato, come si è accennato sopra, con un coraggioso sprezzo del rischio nei luoghi stessi in cui i fatti più o meno reali, ma fortemente “realistici e corrispondenti”, erano accaduti (e si stavano ancora verificando, perché le condizioni di vita non accennavano a modificarsi) che è anche la riprova di come davvero lo strumento della visione può essere utilizzato per incidere politicamente evidenziando dinamicamente e senza troppo pontificare dall’alto, la portata di una catastrofe come quella africana, sintetizzata in una storia ed un vissuto che permette di rendere più chiaro e diretto l’approccio e la condanna.
Rogosin, che con la collaborazione di Lewis N’Kosi e Bloke Molisane firma la sceneggiatura (l’idea gli fu fornita da una inchiesta condotta fra i negri del Sudafrica, vittime del razzismo), elabora così un canovaccio esemplare che gli permette di cogliere dal vivo una situazione di crisi sociale non ancora giunta alla ribalta dell’opinione pubblica mondiale, e di denunciare con la consueta lucidità e passione di un inusuale stile indagatore, proprio quella politica criminale perpetrata con ignominia dai bianchi usurpatori verso i nativi.
Il bisogno prioritario di spiegare le tragiche condizioni di vita della popolazione nera in quei tempi, nel paese dell’apartheid, limita un poco il ricorso all’improvvisazione che era peculiare della sua modalità di rappresentazione delle cose, ma Rogosin trova una straordinaria mediazione pratica particolarmente efficace, alternando i momenti “reali” ed oggettivi a scene “ricostruite” e recitate da “non” attori presi dalla strada, ma che avevano avuto un’esperienza analoga nella loro esistenza reale (per accentuare il clima di “verità assoluta”) a quella raccontata nel film, senza mai smarrire così il senso della “autenticità” (e penso dunque che in qualche modo gli si possa riconoscere anche un valore di carattere antropologico).
Il difficile compito di rendere nella sua interezza una complessa situazione quale era quella dei negri del Sudafrica, è quindi a mio avviso assolto con piena rispondenza di intenti e di risultato, ma proprio a questo riguardo, per comprendere appieno il valore dell’intervento politico, dello sforzo produttivo e dei rischi di questo avventuroso e necessario percorso, credo che sia importante prima di tutto lasciare la parola proprio al regista e al resoconto che fa delle motivazioni emotive, oltre che delle difficoltà, dei pericoli e delle implicazioni pratiche, di questa straordinaria esperienza non solo umana ma anche artistica: Quando decisi di fare il film sapevo che avrei dovuto scegliere fra due posizioni contrastanti: o descrivere la reale situazione sudafricana – che le autorità locali non avrebbero gradito né permesso – oppure cercare di raggiungere qualità estetiche e tecniche il più perfette possibile rispondendo prioritariamente al “bisogno dell’artista”. E’ stata dura scegliere, ma ho comunque concluso poi, come era probabilmente inevitabile che accadesse, che una descrizione della situazione reale, fosse di gran lunga la cosa più importante e necessaria, nonostante i rischi ai quali ero consapevole di andare incontro. Di conseguenza era indispensabile lavorare in segreto, mistificando un poco e aggirando i controlli, un procedimento che costringeva però a molte dolorose concessioni, in quanto un’attività semiclandestina non consente sempre il raggiungimento di quella perfezione formale che si richiede per giungere a un ‘opera tecnicamente priva di errori’. Mi imposi dunque di realizzare un film che riguardasse in modo preponderante la condizione disumana esistente nel Sudafrica per la gente di colore, condizione vista come conseguenza politica del governo al potere in quella nazione, poiché questo, e soltanto questo era uno scopo degno di essere perseguito (qualcosa di simile sarebbe forse necessario che venisse realizzato anche qui in Italia – ma non si intravedono Rogosin all’orizzonte - per denunciare le immorali condizioni dei nuovi campi di concentramento riservati agli esuli indesiderati che dal terzo mondo approdano ai nostri lidi in cerca di un lavoro e di un possibile riscatto sociale trovando invece una nuova momentanea ma prolungata “segregazione etnica” in attesa del rimpatrio). I fatti erano stati scelti in base agli elementi drammatici in essi contenuti anche per il loro significato simbolico, poiché necessitavo anche di un impatto emotivo di coinvolgimento che rendesse più partecipativo l’interesse del pubblico fruitore. I personaggi naturalmente risultavano dall’ambiente, ma erano modificati in conformità ai loro valori drammatici, umoristici e simbolici, e in base alla condizione cui il sistema repressivo di governo li aveva ridotti. Poiché tutti erano vittime di questo sistema, feci in modo che esprimessero e portassero in superficie i profondi effetti emotivi che sono conseguenza dell’apartheid, della segregazione razziale.
Sul set spiego così agli attori la situazione che devono ricostruire, unitamente alla motivazione delle loro reazioni. Nella recitazione si procede poi per modifiche successive, finchè le loro battute non si adattano perfettamente al tema e alle esigenze della trama. Per ottenere un dialogo completamente spontaneo, abbiamo utilizzato due macchine da presa, operanti simultaneamente ma con diverse angolazioni, proprio per evitare di dover ripetere una stessa conversazione e renderla così più artificiale e costruita. Ogni scena è stata divisa in due sezioni, ciascuna delle quali sovrapponibile all’altra, cosicché noi potevamo sempre far riprendere l’azione da un punto della sezione precedente, Ogni sezione veniva girata almeno due o tre volte con due macchine da presa, e in tal modo potevamo disporre di due versioni complete per ogni brano. Ciò ha reso possibile la continuità del montaggio definitivo e la tenuta anche drammatica dei movimenti e delle azioni.
In queste “confessioni”, o note di lavorazione che dir si voglia, (che sono ovviamente più complesse e articolate e delle quali riporto comunque un adeguato stralcio) Rogosin cita anche, come registi di riferimento (quelli cioè ai quali si è ispirato), Flaherty e De Sica (naturalmente quello di Ladri di biciclette, di Sciuscià o di Umberto D), proprio perché avevano già dimostrato praticamente con il loro lavoro, quanto fosse importante e necessario lo strumento “realistico”, o meglio quello della “verità visiva” per raccontare e abbattere i muri dell’isolamento che esiste fra i popoli (Rogosin evidentemente, considerandoli quasi un’unica inscindibile unità, assommava al nome di De Sica anche quello di Zavattini, così presente del resto, ancora come figura “carismatica” di riferimento, già in On the Bovery). Non c’è alcun dubbio infatti che il suo metodo creativo rimandi a un cinema fortemente visualizzato ma di sostanza, che esprime e “riproduce” l’ambiente e la gente che lo abita, così come richiede ed esige proprio la poetica zavattiniana (ve ne andate con i vostri occhi e vedete la sceneggiatura per la strada, negli edifici, e scegliete così le immagini da raccontare).
Secondo Aristarco però (e io sono abbastanza d’accordo), quest’opera in particolare, richiama alla memoria nella sua struttura narrativa e nelle scelte operate per la realizzazione (magari impropriamente o indirettamente e persino senza che Rogosin conoscesse davvero quel lavoro e quel risultato, cosa questa più che probabile, “certa”) anche e soprattutto il Visconti de La terra trema.
C’è infatti in Rogosin il piacere antico di lasciar parlare la gente, di ascoltarla rispettando i tempi ed i bisogni della comunicazione, anche a costo di tenere in piedi inquadrature lunghissime, di cogliere dialoghi e ambienti sul fatto riproducendone l’autenticità “artistica” ma di non essere mai “casuale” che è proprio un metodo di approccio operativo che rimanda, sia pure con meno estetismi, a quel regista e a quel film.
Si può dunque dire che – per lo meno in questa circostanza - esiste un legame stretto tra le note di regia del regista e quello che Aristarco definiva il “cinema antropomorfico” di Visconti, o ancora meglio, che è per lo meno analogo l’impegno e la volontà dei due autori di raccontare storie di uomini vivi: vivi nelle cose, e non le cose per se stesse, anche se in Rogosin l’esperienza “originale” non sembra venire poi a integrarsi, come in Visconti, con una esperienza “culturale” tout court, intesa cioè in una accezione più vasta, complessa e propositiva, poiché la poesia che esprime Rogosin porta a un finale che si i risolve in una sconfitta: Zachariah è e rimane semplicemente un vinto, rabbioso e impotente, ma vinto all’inverso del ‘Ntoni di Visconti che è sì un vinto, ma al tempo stesso anche un “vincitore” .
Convergenze e modalità che possono riguardare anche il metodo utilizzato, o più propriamente ancora, il lavoro appassionato svolto con l’attore dilettante preso dalla vita, che non è né deve diventare un interprete o un mediatore, ma bensì deve restare a tutti gli effetti un personaggio autentico che esprime sentimenti autentici e profondamente sentiti (e da qui la necessità di costruire i dialoghi basandosi su ciò che sa e riesce ad esprimere il personaggio stesso, il modificare la sceneggiatura via via che il regista viene a contatto con la realtà viva, etc.)
Le riprese (ed il montaggio) ci regalano comunque autentiche scene di sofferto e potente lirismo, fra tutte vanno ricordate almeno, per la loro intrinseca drammaticità, quelle dell’arrivo in città della folla di pendolari negri; del duro lavoro in miniera (dove si nota l’influenza dei classici del cinema sovietico) e della vita disperata nelle bidonville, oltre a quelle, analogamente preganti della conflittualità “aggressiva” dei rapporti coercitivi nel periodo di lavoro che Zacharian svolge presso una famiglia di bianchi e poi in un garage, delle azioni di polizia, dell’arresto e delle discussioni politiche fra negri. Fra tutte però giganteggia per la forza rabbiosa e sconfortata che emana, proprio quella finale, dopo l’atroce assassinio della sua compagna, che registra la disperazione del protagonista diviso tra collera e delusione e senza più alcuna prospettiva di speranza, che piange e picchia i pugni sul tavolo del suo povero alloggio, mentre sfilano le immagini della sua travagliata “via crucis”.
Grande importanza riveste poi in questo contesto, anche la musica: dai tamburi e dalle orchestrine di strada che utilizzano strumenti improvvisati e di fortuna, al canto magnifico reso straordinariamente penetrante fino a graffiarti l’anima, dalla eccezionale voce di Myriam Makeba, che proprio questo film contribuirà a rendere celebre in America dopo la sua espulsione del Sudafrica.
Ad emergere, comunque, è soprattutto il razzismo, non più solo di leggi e regolamenti, ma soprattutto di atti e comportamenti quotidiani, ancor più terribile dunque per la sua accettata “normalizzazione” (un po’ la strada sulla quale si sta pericolosamente inclinando il percorso della nostra attualità italiana), una posizione ormai pienamente assimilata dall’inconscio collettivo come “giusto” e “necessario” strumento di difesa. E l’efficacia cruda e potente della rappresentazione, rende particolarmente incisiva proprio questa denuncia: Rogosin consapevole che la comprensione umana scaturisce unicamente dall’esperienza (in)diretta di un vissuto, e soprattutto dal dolore che si percepisce, proprio nel rappresentare “documentariamente” il dramma della segregazione razziale attraverso i casi personali del protagonista (per altro come si è visto, “recitati” da un autentico africano cresciuto nell’ambiente delle tribù, non educato e forse anche illetterato, spontaneo e non “strutturato”, ma con un profondo, sentito ricordo non rimosso delle sue origini emozionali, e dunque sensibilissimo dinanzi a un’esistenza di paritaria libertà che in pratica viene negata anche a lui, e capace per questo di restituirceli in tutta la loro tragica consistenza), punta giustamente le carte sull’emozione certa, esprimendo il suo “realismo” in parte ricostruito, con una carica fortemente drammatica, oltre che poetica, che umanizza il percorso e l’adesione totale e diretta dello spettatore. Ma non si limita ovviamente a raccontare i problemi e gli accadimenti, le privazioni e le angherie che i personaggi devono affrontare nella loro vita di ogni giorno: all’interno delle sequenze del dramma, e con intenti tutt’altro che di semplice e mera “cornice” naturale per oggettivizzare ancor di più la situazione, vengono inserite varie scene aventi il compito di documentare la vitalità e la musicalità delle strade della città: i gruppi di penny-writer – suonatori di fischietto – e il pubblico di ascoltatori, in gran parte bianchi, che stanno continuamente ad osservarli, un altro elemento che contestualizza e fornisce al film un forte senso di autenticità senza alcuna cesura o (“frattura” strutturale) fra la parte diciamo dell’”attualità” e quella della “narrazione” vera e propria che si integrano così perfettamente fra loro anche stilisticamente parlando.
Il film rimane a tutti gli effetti dunque l’opera più avanzata, e anche quella più artisticamente compiuta, prodotta in America sul problema negro in Africa (e non solo), così come si presentava più o meno alla metà del secolo scorso, ancor più significativo del già potente L’escluso (The Quiet One -1948) di Meyers che comunque può essere considerato a buon diritto un altro degli anticipatori delle ricerche e degli approdi narrativi di Rogosin e del New American Cinema Group, e un’opera a sua volta chiaramente imparentata con l’esperienza neorealista italiana.
Come sorprendete notazione di costume (per l’oggi quotidiano che viviamo), segnalo che il 13 novembre 1965 (bei tempi andati quello, che ci vengono ricordati con puntuale precisione dal Dizionario universale del cinema curato da Fernaldo di Giammatteo per i caratteri degli Editori Riuniti) l’edizione doppiata in italiano del film fu trasmessa – se la memoria non mi inganna proprio in prima serata - dal secondo canale della Rai non ancora “degenerato”.
Zachariah, un contadino negro dello Zoulouland, per effetto della crisi, lascia la sua terra d’origine per cercare lavoro a Johannesburg. Qui lo attende prima la vita massacrante nelle miniere, poi presso una famiglia bianca come tuttofare, quindi l’incontro con i militanti di un movimento anti-appartheid che gli risveglia la sua coscienza di classe. Ancora un lavoro precario in un garage e poi in un ristorante. La travagliata via crucis della sua esistenza continuerà poi per i problemi con la polizia locale e l’arresto che deve subire oltre che per la lotta con Marumu, capo degli Tsotis (una specie di banda di teppisti) al quale si contrappone. Il finale (l’atroce uccisione della moglie trucidata da uno squilibrato e la drammatica consapevolezza della sconfitta) sarà drammatico e senza speranza alcuna.
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