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Frittata all'italiana

Regia di Alfonso Brescia vedi scheda film

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La recensione su Frittata all'italiana

di moonlightrosso
2 stelle

Film appartenente al genere "commedia che non fa ridere".

Film appartenente al genere "commedia che non fa ridere" in cui si cerca maldestramente di compensare la puerilità delle gags, la pochezza del contesto narrativo e il pauperismo di fondo con una buona dose di nudità e di situazioni pruriginose.

Il film inizia con una desolante situazione sotto-abatantuonesca con un immigrato del profondo sud trapiantato nella "Città della Mole" a darsi arie da "torinese doc" mentre impartisce indicazioni stradali a una coppia di sbigottiti automobilisti romagnoli.

Seguono i titoli di testa sullo sfondo della cucina di un ristorante con un cuoco intento a scodellar frittate per un cameriere giapponese (Mah!). Mentre scorrono i nomi di coloro che presero parte al nostro "kapolavoro", veniamo accompagnati da una pessima imitazione delle canzoni degli "Oliver Onions", eseguita dagli ultrasconosciuti "Red Wheels" (chi furon costoro?) con uno straniante effetto "Chipmunk" ante-litteram su partitura del Maestro Alessandro Alessandroni, autore della colonna sonora.

Ci si sposta ordunque a Milano, capitale economica e morale del Belpaese; la teutonica Karin Schubert, non ancora approdata all'hard e la meteora Sonia Viviani, nelle rispettive vesti di madre la prima e figlia la seconda, sono a capo di un'azienda produttrice di kimono (cosa???!!!). Queste lamentano la concorrenza di una coppia di napoletani, anch'essi genitore e figlio, impersonati dall'"eduardiano" Antonio Casagrande e dal "bagaglinesco" Franco Cremonini, entrambi recentemente scomparsi, i quali importano e vendono a bassissimo costo il medesimo capo d'abbigliamento. Si scoprirà che i due cialtroni in realtà spacciano manufatti realizzati a Napoli per kimono giapponesi originali! Al fine di carpire il segreto di cotanto successo le due ignare donne organizzeranno un incontro con i rivali nel capoluogo campano. Unendo l'utile al dilettevole i nostri azzuffoni, dopo aver mostrato alle belle meneghine il mare e i vari siti partenopei e della costiera amalfitana, si chiuderanno nella villa di un barone guardone e sadomasochista (sic!). Qui, in un ideale incrocio generazionale informato alle coeve istanze di libertà sessuale, l'attempato e arzillo Casagrande si innamorerà ricambiato della Viviani, mentre il Cremonini concupirà, anch'esso ricambiato, la matura Schubert.

Alfonso Brescia e Raffaele Esposito, firmandosi "Brescia e Faele", manco fossero "Terzoli e Vaime", sono gli autori di questo aborto di "pièce teatrale", che credo nessuno abbia mai avuto la malaugurata idea di rappresentare sul palcoscenico. A trasporla sul grande schermo, il produttore Riccardo Billi (da non confondere con colui che lavorò in coppia con Mario Riva), con i pochissimi denari a disposizione, pensò bene di affidarsi proprio ad Alfonso Brescia, uno dei due "autori", regista definito "da battaglia" e molto alla "buona la prima".

A corroborare il delirio generale, l'irsuto e oggi compianto cineasta romano (che si concede fra l'altro anche un cameo) consente al Casagrande di abbandonare totalmente la "misura" di quel "Teatro di Eduardo" del quale fu uno dei più assidui interpreti. Affiancato da un Franco Cremonini quanto mai spaesato e fuori parte, il nostro sbraca in una macchietta napoletana talmente irritante e scontata, al cui cospetto persino Vincenzo Salemme o Carlo Buccirosso diventerebbero Totò.

Karin Schubert, incaricata di mantenere desta l'attenzione con le proprie grazie e all'epoca al massimo della forma fisica, è stata una delle tante starlets a basso costo della Cinecittà di quel periodo convinte che bastasse lavorare (con chiunque e con qualunque "compromesso") per raggiungere la vetta della notorietà. La crisi del cinema di genere e la spasmodica ricerca di denaro per mantenere, sembra, un figlio tossicodipendente, costringeranno l'attrice tedesca nella seconda metà degli anni ottanta a cedere ai facili guadagni offerti dal cinema hard-core, prima di sprofondare nella miseria e nel ludibrio generale che la porteranno a ben due tentativi di suicidio.

Per il resto, a parte la bella statuina Sonia Viviani, assai meno spogliata della più matura collega, nella folle girandola d'ambientazioni dismesse da qualche palcoscenico e destinate con tutta probabilità alla discarica, si agitano nella più totale anarchìa: una Dagmar Lassander in versione "oca giuliva" che fuoriesce di punto in bianco da un armadio e con le poppe al vento (non chiedetemi il motivo ma vi assicuro che va bene così!); un Mario Maranzana nelle succitate vesti del barone-maniaco; l'onorevole corrotto e cornuto Franco Ressel; una vegliarda che parla come Tina Pica e che sovraintende lo scantinato in cui si fabbricano i kimono farlocchi e, dulcis in fundo, il simpatico mimo giapponese Hal Yamanouchi. Girando letteralmente a vuoto per tutta la durata del film, riveste l'assurda parte di un cameriere che in una delle prime scene serve una frittata ai due napoletani e che nel finale dal sapore slapstick sarà preso a frittatate in faccia da tutti i protagonisti di questa sgangherata e allucinante vicenda.

 

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