Regia di Henri Storck, Joris Ivens vedi scheda film
Il lungo cammino di Ivens parte da qui, da dove era partito anche Van Gogh, che visse anni con quei minatori e li portò sempre con sé, anche fra i campi di lavanda della Provenza.
Misère au Borinage (Ellende in de Borinage) è il primo documentario militante di Joris Ivens, girato nel ’33 con Henri Storck nel bacino carbonifero del Borinage, sub-regione francofona del Belgio.
Minatori in sciopero che sfilano nella marcia della fame, interni bui di case miserabili, salari decurtati, sfratti di famiglie che non possono più pagare l’affitto e ammucchiano sul carretto l’intero trasloco, ritardi nella crescita e nello sviluppo intellettuale di bambini malnutriti e costretti a scendere in miniera appena adolescenti, il repertorio dell’orrorre c’è tutto e ripreso dal vero.
In un bianco e nero sporco, senza sonoro e con riprese di qualità scadente per le condizioni precarie a cui la troupe fu costretta (non ultima la clandestinità), il lungo cammino di Ivens parte da qui, da dove era partito anche Van Gogh, che visse anni con quei minatori e li portò sempre con sé, anche fra i campi di lavanda della Provenza.
Nessuna enfasi né facile pietismo, Ivens guarda a quello che accade con l’occhio incredulo e partecipe di chi riesce ancora a stupirsi che il mondo sia questo, mette in scena la realtà senza etichette né predicozzi moraleggianti.
Le didascalie spiegano alcune sequenze e danno le coordinate cronologiche dei fatti, parlano di salari e riportano numeri, ma il racconto più eloquente è quello della macchina che s’infila nei cunicoli a riprendere il lavoro dei minatori, guarda nei piatti vuoti sul tavolo di cucina, nelle stanze dormitorio dove si ammucchiano intere famiglie, segue le bare che sfilano o i carretti traballanti che traboccano di povera roba buttata fuori dai padroni di casa.
Un primo piano, fra i rarissimi, è dedicato al ragazzo che attraversa il villaggio tornando dalla miniera, dove lavora con i piedi nell’acqua, e consegna i pochi franchi alla madre.
E’ un viso bello, sorridente sotto il berretto, guarda contento la madre, una vedova invecchiata precocemente, imbruttita.
Sono brutte le donne di questo mondo, piegate dalla fatica anche loro, figli a mazzi che pigolano “Ho fame” e non aver quasi niente da dare, non è facile.
Ottanta anni dopo questo documentario non può smettere di sprigionare tutta la sua forza, forse quelle baraccopoli non sono ancora tra noi? E i minatori, non esistono ancora? Non c’è forse ancora gente che passa due terzi del suo tempo sotto terra, e se risale è già fortunata?
Le lente carrellate a riprendere file di calzini bucati stesi ad asciugare, montagne di carbone, strade fangose, uomini e donne curvi sotto sacchi riempiti di nascosto di scorie per scaldarsi, finestre sigillate con mattoni per impedire occupazioni abusive e i bambini, bambini ovunque, inconsapevoli.
Scorre in fretta nei suoi 36 minuti Borinage, un nome forse sconosciuto a molti.
L’ultima scena chiude con un corteo di paese che reca in processione una gran cornice baroccheggiante col ritratto di Marx.
Segue didascalia: “Le prolétariat sait que les contradictions et la misère dans le Borinage, come dans la Belgique entière comme dans le monde sont les fruits du capitalisme et que l’humanité ne sera sauvée du desordre et de l’exploitation de l’homme par l’homme. Que par la dictature du proletariat pour l'avènement du socialisme ”
www.paoladigiuseppe.it
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