Regia di Georges Méliès vedi scheda film
Vedendo questo film nella versione restaurata, colorata, accompagnata da una stravagante psichedelica partitura musicale, non si ha affatto l’impressione di trovarsi di fronte ad un’opera vecchia di 111 anni. Potrebbe essere un esperimento di video-arte contemporaneo e nessuno se ne accorgerebbe. Quando si vede un film muto degli anni 20, o una commedia degli anni 30, o un noir degli anni 40, si identifica facilmente il periodo in cui venne girato: il motivo risiede nel fatto che quei film rispondono a codici espressivi oramai consolidati (e caratteristici delle rispettive epoche). Il primo “consolidatore” della Settima Arte è stato Griffith. Con Melies, invece, il cinema è ancora qualcosa di indefinito, una massa informe di frame su cui lavorare in maniera creativa, un laboratorio di visioni, uno scrigno di segreti. Non ci sono forme, non c’è uno stile, non ci sono regole né ideologie. C’è il retaggio delle arti più “vecchie” semmai, specialmente il teatro. Ma la mdp rimette tutto in discussione, ridefinisce le prospettive, manipola l’oggetto dello sguardo e, soprattutto, inventa il movimento. In “Viaggio nella luna”, ovviamente, l’inquadratura resta sempre immobile; tuttavia non si ha mai l’impressione di staticità, di “teatro filmato”. C’è un dinamismo che scaturisce dai convulsi movimenti dei personaggi (che nella fuga finale, “evadono” letteralmente dall’inquadratura, mostrando quanto stretta sarebbe rimasta la dimensione della scena teatrale all’anelito avvenirista della cultura novecentesca), dai continui cambi di scenografia, dai cromatismi instabili, dai rudimentali ma affascinanti trucchi che fanno sparire ed apparire persone ed oggetti. Il momento clou resta chiaramente la celeberrima scena del razzo che colpisce una luna dalle sembianze umane, forte di un inusitato (e finto) effetto zoom: qui abbiamo l’apoteosi di questo miracoloso film. Miracoloso perché, in un’epoca in cui il cinema non era ancora percepito come arte, ma solo come tecnica o al limite come gioco, “Viaggio nella luna” possiede già una precisa poetica ed estetica. La poetica è quella della scoperta, dell’avventura, dell’esperienza (tutto il film potrebbe essere una specie di trip lisergico). E l’estetica, coerentemente, è quella dell’instabilità dell’immagine, dell’irrequietezza dei personaggi, della messa in discussione di tutto ciò che lo spettatore vede. In quest’opera, naif come nessun’altra, auto-ironica e del tutto prima di qualsiasi pomposità, si scorge un’idea di cinema come territorio dell’incertezza, della labilità della coscienza, della materializzazione del sogno, di una realtà che non esiste. Film libero come nessun altro, non riproduce niente che esista in natura e non fonda nessuna corrente, non impone regole né codici: inneggia serenamente ad abbracciare le meraviglie partorite dalla nostra fantasia, a lasciarsi andare al fremito palpitante di una mai domata sete di esperienza, fino a fondere la propria natura umana con quella delle proprie eccentriche creazioni.
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