Regia di Vsevolod I. Pudovkin vedi scheda film
Pudovkin, come Ejzenstejn, rappresenta il dolore umano attraverso una galleria di ritratti; eppure, contrariamente al suo illustre contemporaneo, non fa della sofferenza un’icona. Sotto il suo sguardo la rabbia ed il terrore vestono cenci fangosi ed esplodono in espressioni scomposte e gesti sguaiati; d’altronde il vero realismo è grezzo, scevro da cesellature estetiche, perché coglie la nuda immediatezza delle situazioni. E non occorre che i personaggi indossino l’abito di rappresentanza, perché essi, benché vittime di violenze e soprusi, non sono eroi; né essi rivestono il ruolo di protagonisti, visto che il loro caso appartiene ad una moltitudine di analoghi destini. La reazione all’ingiustizia e il desiderio di rivalsa non sono gesti di coraggio, ma naturali riflessi di un animo ferito; e non v’è, purtroppo, alcuna eccezionalità nel male, che è tragicamente diffuso ed illimitatamente ripetibile. La coralità è quindi la fedele rappresentazione della dimensione storica dei fenomeni come la guerra, la miseria, l’oppressione, che riguardano sì, singoli individui, ma sono drammi epocali e collettivi, che gravano sulla coscienza di tutti e sono grado di condizionare la sorte del mondo. La massa è un soggetto politico, ma in questo film, che pure è attraversato dai movimenti della folla, non è lei a comparire in primo piano: il suo non è un grido all’unisono, che saprebbe tanto di proclama rivoluzionario. A risuonare è, invece, una voce singola, quella della madre, confortata dalle tante voci circostanti, nel momento in cui la comune disgrazia fa scattare la solidarietà. Questo film fa dell’iniustus dolor il collante dell’umanità ed il motore del cambiamento, che risponde alla morte inaccettabile con una prepotente volontà di vita.
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