Regia di Lajos Koltai vedi scheda film
Firmatario del patto tripartito il 20 Novembre 1940, il Regno di Ungheria è ormai orientato verso un modello di governo simile alla Germania Nazista: partono così le leggi antisemite, per concludersi con i rastrellamenti ebrei; deportati in massa verso i campi di sterminio. Imre Kertész è tra coloro che vivranno questa terribile esperienza. Ne editerà un romanzo autobiografico, che trent'anni dopo sarà il materiale da cui attingerà questo film.
Lasciar curare la sceneggiatura da Kertész è un'arma a doppio taglio: solitamente porre alla scrittura lo stesso autore di un romanzo è una decisione, non solo ovvia, ma più che giusta. Kertész riesce benissimo a ricalcare dialoghi e vita del suo libro "Essere senza destino", cogliendo tematiche e messaggi senza mai sconfinare o mal interpretare ciò che la sua opera letteraria voleva mostrarci; sfortunatamente, trattandosi di un percorso autobiografico, la mano di Kertész è pesante: si sente molto la presenza, e il desiderio di voler mostrare a tutti i costi i sentimenti che egli stesso ha provato: dialoghi e narrazione diventano molto di parte dunque, ed anzichè essere un film sull'olocausto, diventa un film sul giovane deportato, inscenando sotto-trame che, o terminano frettolosamente o non concludono affatto. Più una retorica che il pubblico più attento non si lascia sfuggire e non apprezza per inconsistenza.
Se a questo aggiungiamo un tema che non può vantare freschezza e originalità, il senso di già visto è forte: la vita nel lager è mostrata con la stessa tecnica a cui ci hanno abituato svariati film, su quello che ormai è un genere cinematografico.
La parte veramente attraente è quella del ritorno in patria; un vero peccato che bisogni attenderla due ore. Ed è proprio qui che i temi più stimolanti vengono toccati: lasciando da parte il già a lungo trattato eccidio nazista, si ragiona sul relativismo della felicità: l'uomo riesce a vedere il bello persino nell'inferno, dove un luogo di atrocità diventa quasi una casa andata perduta, un posto in cui si era accettato il proprio destino, anche se ormai quest'ultimo è scomparso.
L'ungaro Koltai, al suo primo lavoro da regista dimostra di essere ben più capace nel campo della fotografia: la sua ripresa è scarna, poco personale; anch'egli sembra esser finito sotto il giogo dello scrittore/sceneggiatore, limitandosi a stare alle spalle del suo protagonista, trascinando con sè tutta quella messa in scena a cui un simile cinema ci ha ormai abituato, con ispirazioni ormai a lungo utilizzate. Tra cui stancanti piani sequenza e le continue dissolvenze di un montaggio dilettante.
Sfortuna vuole che Marcell Nagy non riesca da solo a reggere il peso di una storia (e di un sacco) così significativa: si limita a mantenere un espressione strappalacrime per metà del film, alternandola con quella spenta e innaturale quando si trova a Budapest. Gli altri attori si rivelano tutti sopra le righe o relegati in ruoli eterei, causa la malposta sceneggiatura, che non lascia spazio se non al suo protagonista principale.
Fortunatamente vi sono aspetti tecnici e idee che riescono a salvare dall'oblio questa pellicola: indimenticabile è la fotografia di Gyula Pados; sublime il suo discendere lentamente da una colorazione satura di Budapest ad un bianco e nero spento e freddo, che riflette bene non solo le emozioni del protagonista, ma l'atmosfera che si respirava in un lager, quel senso di irrealtà e di eterogeneo.
Sulle musiche di Morricone c'è poco da dire: poetiche e drammatiche al punto giusto, significative sia nei momenti più bui che riflessivi del protagonista. Riescono anche tramite un semplice motivetto a farci dimenticare per alcuni istanti la convenzionale storia di orrore dei campi di sterminio facendoci emozionare genuinamente.
La scenografia riesce bene a riportare un crudo realismo, che raramente vediamo in questo genere di film: la ricostruzione di baracche putride, terreni fangosi e prigionieri nudi e umiliati è ben più smorzata in simili pellicole; suggestiva in particolar modo la danza macabra dei prigionieri privati dal sonno: una funebre armonia che grazie a musica, scenografia e fotografia colpisce duro nell'immaginario dello spettatore.
Non bastano dieci minuti a far diventare questo lungometraggio una pellicola d'essai, ma certamente nella sua dura oggettività e alcune sequenze davvero commoventi (un piccolo infante che si finge sedicenne) è un film riuscito con cui soprattutto i ragazzi possono aprire un argomento forse sconosciuto.
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