Regia di Lajos Koltai vedi scheda film
In Ungheria, dal 1939 al 1944, le leggi razziali hitleriane limitano progressivamente le libertà dei cittadini ebrei, fino alla deportazione nei campi di concentramento. A Budapest il ragazzino Gyuri assiste prima alla partenza del padre e dopo poco gli tocca la stessa sorte. Con la differenza che Gyuri tornerà a casa. Tratto dal libro del premio Nobel ungherese Imre Kertész Essere senza destino (Adelphi), un film che rinnova la questione della rappresentabilità dell’orrore della Shoah, che va dal carrello di Kapò alle divise scintillanti dei nazisti e al cappottino rosso della bambina di Schindler’s List. Firmato dal direttore della fotografia Lajos Koltai (premio Oscar per Mephisto di István Szabó, e candidato per Malena di Giuseppe Tornatore), possiede ovviamente una qualità formale apprezzabile che può distogliere da quello che nei cineforum si chiamava “contenuto” (complice anche lo score magniloquente di Morricone). Nella successione degli episodi di quotidianità nel lager, che ormai sono stilemi di un genere a parte, spicca un’immagine, ricercata forse, ma simbolica: all’aperto e al freddo del lager, i corpi scheletriti dei resistenti vacillano, si piegano, barcollano, ma non accettano di crollare. Sintesi di una resistenza universale, ribadisce una dignità umana che prescinde dal fatto storico dell’Olocausto. Oltre al dovere della memoria, si racconta il naturale distacco di chi ritorna, e la capacità di godere del raggio di sole che cade dove ogni Dio è morto. Davanti alla quale, forse, vale la pena non di accantonare, ma di riconsiderare le discussioni estetiche.
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