Regia di Damiano Damiani vedi scheda film
La recente morte di Damiano Damiani ci suggerisce la rilettura della sua opera, spesso schiacciata da una parte dal cinema d’impegno più autentico e celebrato (Elio Petri, un nome per tutti) e dall’altra parte dal cinema più commerciale e di deriva poliziottesca (il rivalutatissimo Fernando Di Leo, un nome per tutti). L’onesto artigianato di Damiani ha la caratteristica di non essere facilmente inquadrabile in una categoria autoriale, e per certi versi è anche una qualità. Damiani, al di là dei risultati non sempre memorabili, ha saputo coniugare le istanze puramente civili di un cinema oggi impensabile e parzialmente assorbito da certa, dignitosa televisione con le legittime esigenze di un pubblico di bocca buona ma neppure troppo. Il giorno della civetta e La piovra sono i suoi prodotti più famosi e forse riusciti, ma mi piace ricordare questo Girolimoni, un film anomalo per molti motivi.
Innanzitutto il coinvolgimento di Nino Manfredi, forse il più americano dei moschettieri della commedia all’italiana per il puntuale (se non pignolo) lavoro di ricerca sul personaggio: Manfredi impersona questo povero cristo additato come il serial killer pedofilo dell’omertosa e moralista Roma fascista con una partecipazione e uno sbigottimento che ben si coniugano con i sentimenti del pubblico. L’attore costruisce il ruolo, quindi, con sicura empatia al fine di montare l’indignazione dello spettatore, ma allo stesso tempo riesce a controllare la materia con il distacco tipico del suo carattere professionale. Damiani, naturalmente, lo dirige con esimio mestiere e riesce non banalmente a non centralizzare l’attenzione sul personaggio: il film, non a caso, inizia con la rappresentazione della borgata ferita dalla morte di una delle bambine vittime del mostro e sin da subito capiamo chi sia il responsabile degli orribili omicidi.
Girolimoni racconta non soltanto il calvario del fotografo ingiustamente accusato, ma anche la tremenda operazione di insabbiamento organizzata dalla madre dell’assassino per salvare il perverso figliolo (un incisivo Gabriele Lavia), e soprattutto le viscide e spregevoli macchinazioni del regime e della polizia per chiudere la faccenda in nome dell’inattaccabilità del mito del regime buono e perfetto. Cinema popolare nel senso più alto del termine e allo stesso tempo didattico e civile atto d’accusa contro qualunque tipo di gogna mediatica, è un film terribilmente italiano perché mette in scena il lato oscuro di un popolo sempre pronto a puntare il dito contro qualcuno. Il finale, quasi onirico, valga da lezione.
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