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Il balcone

Regia di Joseph Strick vedi scheda film

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L'autore

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La recensione su Il balcone

di (spopola) 1726792
4 stelle

E’ abbastanza imbarazzante affrontare criticamente questo titolo, presuntuoso nell’impianto, ma scarsissimo nei risultati (parlo della realizzazione cinematografica ovviamente), che pretenderebbe di  “reinterpretare” cinematograficamente uno dei più radicali lavori teatrali di Jean Genet, e lo fa tutto sommato nel sostanziale “rispetto dei fatti”, per quanto riguarda l’andamento generale del racconto, ma fermandosi troppo in superficie, senza mai avere la capacità di “penetrare” davvero l’anima dell’incandescente materia di un apologo che avrebbe avuto bisogno di ben più provate qualità di creatività inventiva che solo i registi davvero “di genio” possiedono. Le anonime caratteristiche di un tutto sommato oscuro mestierante come Strick che ha creduto di poter risolvere l’ostico impatto con la poetica genetiana puntando soprattutto sull’accentuazione grottesca del paradosso di situazioni di per sé già fortemente disturbanti e ambiguamente cariche di allegoriche provocazioni, lo mortificano infatti notevolmente e credo che determinino addirittura un problema quasi insormontabile in relazione alla effettiva possibilità di comprensione dei suoi molteplici significati se non si è già sufficientemente preparati al riguardo quantomeno da una preventiva conoscenza del dramma e soprattutto di cosa ha rappresentato nella evoluzione non solo artistica, ma anche “politica”,  del suo autore.

Devo ovviamente ammettere le oggettive difficoltà di rappresentazione cinematografica (e tenerne conto, anche se non costituiscono alcuna possibile giustificazione) di un testo così enigmaticamente “eccessivo”  fra surrealismo e oniricità, che per poter trovare una pur minima identità nel realismo più “crudele” della pellicola, avrebbe forse avuto la necessità di un barocchismo visionario molto accentuato (qui totalmente assente), capace di differenziare le multiformi parti (e renderne palesi le variazioni) di un percorso narrativo costantemente in movimento anche dialettico nei rapporti demistificatori (e demistificanti) dei tanti personaggi che interagiscono fra loro, così come richiesto dalla progressione drammatica delle differenti situazioni che si evolvono e si modificano costantemente, quadro dopo quadro, con una escalation anche parossistica nella quale le figure opposte del potere e della rivoluzione che rappresentano l’“irrealtà” e la “finzione” della storia, attraverso una esposizione  tanto mediata quanto rituale, dei molti “vizi” (e delle poche “virtù”) qui messi implacabilmente alla gogna, danno vita a un gioco di specchi che si riflettono l’uno nell’altro destinato alla deflagrazione. Perché Genet non intende affermare assolutamente la superiorità della rivoluzione sul potere (o del potere sulle ipotesi rivoluzionarie in atto, considerato che proprio di un gioco di specchi si tratta): si limita semmai ad indicare, evidenziandolo con i movimenti della storia (e senza alcuna “tesi” precostituita da assecondare), che questi  due termini di apparente contrasto, sono invece i complementari ingranaggi di un identico motore.

Potere e rivoluzione dunque, che come scrive Franca Angelini nella sua prefazione al Teatro di Genet (Mondadori editore), lontanissimo dal manicheismo e dalle affermazioni ideologiche dei suoi contemporanei, lo scrittore preferisce utilizzare  come elementi  necessari a muovere il mondo artificioso della scena (…), nella opposizione spaziale tra l’interno di un bordello, con i tableaux vivant catalogati con assoluto rispetto delle forme “celebrative”  del rito che si rifanno a Sade, e l’esterno più asettico  di una rivoluzione in corso,  col suo kitsch mentale oltre che visivo, lasciando alla massa critica dello spettatore pensante il compito di districarsi dentro al magma messo in movimento da un “gioco delle parti”  spinto davvero alle sue più estreme conseguenze.

Ancora secondo l’Angelini, è proprio la glorificazione dell’Immagine e del suo Riflesso (quel gioco degli specchi a cui ci si riferiva sopra) che struttura il dramma anche nelle reciprocità intercambiabile dei ruoli, definibili come “attivo” (le scene del postribolo) e “passivo” (quelle della rivolta), e lo stesso Genet scrive al riguardo: i miei personaggi, quelli che ho espresso in questo dramma, hanno tutti delle maschere. Come posso dire se sono veri o falsi? Io stesso non ne so niente… Il realismo è più lontano dalla verità che la verità dalle illusioni. 

Trasposizione dunque forse impossibile, vista anche la scarsa consistenza dei mezzi (economici) a disposizione, ma allora perché tentare? Sarebbe stato meglio soprassedere e “passare oltre”, considerando che l’operazione come ho già detto, oltre che essere totalmente fallimentare, è persino poco interessante sotto l’aspetto divulgativo della conoscenza, poichè al di fuori della curiosità un po’ voyeristica che alcuni momenti topici (qui  davvero molto più innocui del necessario) possono suscitare nello spettatore più sprovveduto, finisce per essere controproducente proprio ai fini di un possibile avvicinamento  allo scrittore stesso, poiché se non si consoce già la straordinaria portata della sua  spiazzante provocatorietà, si rischia davvero con questa visione un po’ troppo “fuori pista” di  fraintenderne il senso, e di essere spinti così  a “sottovalutarlo” con affrettata supponenza.

Perché ne parlo allora? Principalmente perchè mi frulla in testa un interrogativo che rimarrà senza risposta, ma che mi sembra comunque giusto evidenziare ugualmente: il film è del 1963, e quindi è stato girato quando Genet era ancora vivo e vegeto, cosa questa che mi rende davvero incomprensibile immaginare quali potrebbero essere state le motivazioni  che lo hanno convinto a concederne i diritti (non era certamente tipo da lasciarsi attrarre e “corrompere” da questioni meramente economiche), vista la proverbiale, provata diffidenza che aveva a farlo persino quando si trattava di autorizzare  rappresentazioni teatrali, come ben potranno testimoniare tutti quelli che hanno avuto in quegli anni anche marginali attinenze con il suo universo letterario o sono stati frustrati nel ricevere un categorico diniego alla “messa in scena” di tali opere. I sì anche di fronte a celeberrime professionalità della scena e a proposte comunque allettanti e prestigiose, sono stati infatti sempre dosati col contagocce (e si risolvevano spesso, analizzandone i risultati pratici, in trancianti giudizi di negatività persino di fronte a pregevoli “adattamenti” unanimemente apprezzati dalla critica). Così drastico nel “pretendere” il rispetto di alcune “regole”, da precisare con categorica inflessibilità proprio le specifiche modalità di rappresentazione di questo dramma che se integralmente onorate, potevano lasciare davvero poco margine alla creatività interpretativa del regista, e che si estrinsecano proprio nelle sue note che fanno da prefazione al testo stesso:

A Londra, all’Arts Theatre – l’ho visto – “Le balcon” era recitato male. Altrettanto male lo è stato a New York, a Berlino e a Parigi – m’hanno detto. A Londra, il regista  aveva particolarmente mirato a strapazzare la monarchia inglese, soprattutto la regina, e, attraverso la scena del Generale e del Cavallo, a fare una satira della guerra: scenario dei reticolati.

Dei reticolati in un bordello di lusso! Ma scherziamo?

A New York, il regista ha disinvoltamente fatto sparire tutto ciò che concerne la rivoluzione.

Berlino: un primo regista, qualcosa come un caporale prussiano, aveva avuto la peregrina idea di trasformare  l’apparecchio che permette alla signora Irma di scorgere e d’udire quanto accade in ogni suo salotto, in una sorte di televisore a colori, dove gli spettatori potessero vedere ciò che la signora Irma descrive. Altra sua idea, veramente crucca: per tutti quanti costumi 1900.

Parigi. Il Generale è ammiraglio o Accademico di Francia. La signora Irma si rifiuta d’apparire all’alzarsi del sipario ed esige che fin dalle prime scene la parola sia data a Carmen. Le attrici sostituiscono a un vocabolo un altro (per renderlo meno eccentrico?), il regista fa tagli nel testo.

A Vienna, a Basilea, non so più o non ho mai saputo.

Il palcoscenico girevole – a Parigi – era un’idiozia: io voglio che i quadri si susseguano, che gli scenari si spostino, da sinistra a destra, come se andassero a incastrarsi  l’uno nell’altro, sotto gli occhi dello spettatore. Eppure, la mia intenzione era chiara.

Nelle prime quattro scene quasi tutto è esageratamente recitato, tuttavia vi sono squarci in cui il tono dovrà essere più naturale per permettere all’esagerazione d’apparire ancor più gonfiata. In sostanza, nulla d’equivoco, ma due toni contrapposti.

Viceversa, dalla scena fra la signora Irma e Carmen sino alla fine, si tratta di inventare, allorché i personaggi riferiscono dei fatti, un tono sempre equivoco, sempre falso.

I sentimenti dei protagonisti, ispirati dalla situazione, sono finti o sono reali? La collera, verso la fine della commedia, del Capo della Polizia nei confronti delle Tre Figure, è finta, è reale? L’esistenza e la permanenza dei rivoltosi è nel bordello, o fuori?

E’ chiaro che bisogna  mantenere l’equivoco fino alla fine.

L’autore – proprio a proposito dell’ultima scena – gradirebbe molto che non si tagliasse, non si abbreviasse nessuna spiegazione con la scusa di una maggiore  speditezza e incisività, di una maggiore chiarezza, insomma, o del fatto che tutto è già stato detto prima, o che il pubblico già sa, o che questo si annoia.

Le attrici non devono sostituire parole come casino, puttanile, fottitoio, cazzo, ecc., con parole di buona regola e migliore creanza, non  è un teatro da Carmelitane. Possono rifiutarsi di recitare nella mia commedia se ci si trovano scomode o se lo ritengono sconveniente – al loro posto si metteranno degli uomini allora senza nulla variare. Altrimenti, obbediscano e si attengano al mio frasario. Tollererò che dicano tali parole alla rovescia o invertendo le sillabe. Per esempio: nosica, toiottifo, lenittapo, zoca, ecc., non di più.

Cercar di rendere evidente la rivalità che pare esistere fra Irma e Carmen. Voglio dire: chi è che dirige –la casa e la commedia? Carmen o Irma?. Questo è di sostanziale importanza.

Ho pensato di far salire le Tre Figure fondamentali su alti zoccoli (quasi dei piccoli trampoli). Come faranno gli attori a camminare su quelli senza troncarsi il collo, senza che le loro gambe s’impiglino negli strascichi e nei pizzi delle loro sottane? Cavoli loro, non è affar mio: che imparino!

Va da se che il costume di Irma deve essere, all’inizio della commedia, molto austero. La si può persino immaginare in lutto. S’agghinderà nella scena con Carmen, indossando quell’abito lungo che, nella scena del Balcone, diventerà, grazie ad alcune decorazioni, l’abito della Regina. Contrariamente a quanto s’è fatto a Parigi, le Tre Figure (il Vescovo, il Giudice, il Generale) vestiranno uniformi, o abiti, in uso nel paese dove si recita questo lavoro. In Francia, ci voleva un Giudice che ricordasse quelli delle nostre Corti d’Assise e non un giudice imparruccato; ci voleva un Generale col berretto fregiato di stelle o cinto  di foglie di quercia e non una specie di Lord Ammiraglio. I costumi siano dunque esagerati, ma non irriconoscibili.

Non si denigri di continuo: a Londra, per esempio, il regista aveva avuto un’idea: l’attrice recitante la parte del cavallo, durante una delle sue tirate, disegnava amorosamente con un pezzo di carbone, un paio di baffi al Generale.

I Fotografi (ultimo quadro) devono seguire il modo di vestire e assumere il contegno dei giovani più spigliati dell’epoca e del paese dove – e quando – sarà rappresentata la commedia. In Francia, nel 1960, ci volevano dei Bloisons Noirs di pelle e dei Blue Jeans. (Le critiche relative  a queste rappresentazioni Parigine, si riferiscono dunque alla “storica” messa in scena di Peter Brook).

Il tipo rivoluzionario bisognerà invece inventarlo e poi dipingerlo o modellarlo su una maschera, giacché non scorgo nessuno, nemmeno fra i protestanti lionesi, con una mutria abbastanza lunga, abbastanza triste e abbastanza truce per recitare la parte. La fissità delle maschere dunque andrebbe benissimo. Ma che non si tagli più nulla in questa scena.

Fra Irma e il Capo della Polizia, i brevi istanti che rimangono soli devono rivelare una trascorsa, vecchia tenerezza.

Tutto quello che ho scritto sopra, non è ovviamente rivolto a un regista intelligente. Questi sa cosa deve fare. Ma gli altri?

Un’ultima cosa: non si reciti questo lavoro come se fosse una satira di questo o quell’altro fatto. Esso è – e sarà perciò recitato così - come la glorificazione dell’Immagine e del Riflesso. Il suo significato – satirico o no – apparirà soltanto in tal caso.

Di fronte a nomi “illustri”, una volta concessi i diritti, Genet era costretto a mediare “sopportando”, perchè gli era impossibile a volte tirarsi indietro, ma  con gli altri (quelli che reputava i mediocri o che non conosceva a sufficienza) non aveva pietà, ed era categorico nel no preventivo. Certo che il cinema è diverso dal teatro, ma davvero Strick aveva credenziali migliori di molti di quelli che si sono trovati  chiusa la porta in faccia? Non credo proprio, ed oggettivamente poi quanto di tutto ciò che era richiesto dalle note,  c’è o traspare nel film? Davvero pochissimo, per non dire nulla (e chi lo ha visto, potrà concordare con me)… Questo dunque accentua il mistero di una forse una volta tanto davvero inopportuna “concessione”. Se avesse detto no, si sarebbe potuto evitare questa abborracciata versione che non solo non rende giustizia al dramma, ma a tratti lo ridicolizza addirittura… e dove anche la folta schiera dei volonterosi attori, per quanto tutti professionalmente efficaci (Shelley Winters, Peter Falk, Ruby Dee, Ken Smith, Peter Brocco, Leonard Nimoy) risultano sostanzialmente “estranei” al contesto, e solo Lee Grant nel ruolo di una puttana lesbica, riesce ad elevarsi di qualche spanna al di sopra della mediocrità generalizzata di chi a volte, in evidente assenza di un obiettivo comune da perseguire, sembra davvero non sapere quale pesci pigliare  e si arrangia come può con disomogenei risultati di resa che suscitano più perplessità che convinzioni perchè finiscono per confondere ancor più le idee di chi osserva.

Forse allora ha ragione Morandini che sul suo dizionario, a conclusione del pezzo relativo a questo titolo scrive: meglio leggere il saggio di Sartre “San Genet commediante e martire”, ed è molto eloquente nel definire così i limiti “inopportuni” dell’opera.

 

Molta della straordinaria notorietà che ha accompagnato per lungo tempo Genet è sicuramente legata al teatro (meta ambita e agognata come un impossibile miraggio di ogni compagnia di teatranti – professionisti e non - che nella seconda metà del secolo scorso era impegnata sul versante dell’avanguardia) che ha avuto davvero un peso importantissimo nella sua attività letteraria,  e pur considerando che se anche – come si è visto - pochissimo di ciò che è stato davvero rappresentato  gli è poi andato veramente a genio, ci sono state moltissime interessanti “traslazioni” del suo pensiero, poiché a volte anche una realizzazione non del tutto conforme, può risultare ideale per far scoprire  inediti messaggi e differenti prospettive di lettura di un testo anche al di là delle intenzioni dell’autore stesso, il che riafferma se mai ce ne fosse davvero bisogno, il costante divario tra quanto uno scrittore immagina e quanto la  scena reale  è capace di mostrare proprio scavando nelle pieghe della scrittura con l’intelligenza interpretativa del regista (il che avrebbe  dovuto consigliare l’autore  a fidarsi forse un po’ di più e ad essere molto meno selettivo, rendendo così maggiormente fruibile il suo lavoro creativo).

Di Haute surveillance che potrebbe essere considerato per altro quasi come la matrice ispirativa per il suo Un chant d’amour cinematografico (anche se la fonte più certa è riferibile alle  giovanili poesie d’amore e alla diretta esperienza del carcere), ha scritto (in Oeuvres Complètes, edizioni Gallimard – 1968 -, vol. IV pag. 179): Mi piacerebbe che questo dramma fosse pubblicato come una nota o un brogliaccio… e anche che non venisse mai più rappresentato. Mi è difficile ricordare quando e in quali circostanze l’ho scritto. Probabilmente nella noia e senza volerlo (e si riferisce soprattutto alla forte dose di edonismo che c’è nel testo): è così, mi è scappato, e questo a dimostrazione di quanto ci si fosse progressivamente “allontanato” quasi rinnegandolo.

Sul successivo Les Bonnes dove si respira un clima di “malcelato” e non tanto sottinteso sadomasochismo con riferimenti impliciti che si rifanno alle teorizzazione artaudiane de “Il teatro e il suo doppio”, si è invece espresso così  (Obliques n. 2 – 1972) : (…) già mestamente  intristito da un teatro  che riflette troppo fedelmente  il mondo visibile, le azioni umane e non divine, cercavo di ottenere  una sfasatura che, permettendo un tono declamatorio, avrebbe provocato il teatro nel teatro. Speravo di ottenere così l’abolizione dei personaggi – che di solito rendono solo per convenzione psicologica – a vantaggio di segni lontani il più possibile dal loro significato primitivo, ma che tuttavia lo conservano, al fine di unire l’autore allo spettatore. In breve, ottenere che questi personaggi fossero nient’altro che la metafora di ciò che devono rappresentare.

Entrambi circoscrivono l’azione nella claustrofobicità di un ambiente ristretto che in ogni caso, reale o fittizio che sia, è sempre e comunque una opprimente, limitativa  dimensione di coercizione anche spaziale, e sono dunque due drammi che, pur cambiando sostanzialmente la modalità d’approccio rispetto a un teatro anche di rottura già sperimentato in quegli anni comunque più strettamente “accademico” nel rispetto delle convenzioni, ne “accettano” alcune consuetudini come il numero limitato dei personaggi da impiegare in scena e l’unità di luogo. Non sono  diversi  nella struttura quindi  (si potrebbe forse meglio dire che  condividono molte analogie con altri importanti testi del secolo scorso, come appunto l’angusta delimitazione  dello spazio - sia esso quello della prigione,  o dell’”inferno borghese di una stanza” - che esaspera “il conflitto” e la reazione,  i cui riferimenti più diretti si possono trovare oltre che in molto Strindberg - Danza di morte, Il Pellicano, La sonata degli spettri -, principalmente in Huis clos di Sartre) ma si differenziano per l’impatto demistificante proprio nel rapporto con il pubblico fruitore che ne deriva..

Se questi due lavori traggono ancora  il loro massimo profitto proprio da quel ring anche interiore in cui sono costretti ad operare gli attori, che è gia di  per sé una specie di bara contenitiva con i suoi fiori (anche metaforici), le sue tende, i suoi sfarzi e le celebrazioni rituali che ci girano intorno,  Le Balcon con il quale Genet ha avviato una successiva “fase” più complessa ed elaborata, è invece il dramma  dello spazio moltiplicato, esteso in senso orizzontale, dei molti luoghi dalle tante facce (ma che si poteva risolvere, avendone la possibilità, anche in  “verticale”, come ha dimostrato la stupefacente rappresentazione che ne fece Victor Garcia fra il ’69 e il ’70, in Brasile, dove poté utilizzare “a suo piacimento” il teatro S. Paulo  in ristrutturazione per trasformarlo in un “veritiero” e  fatiscente bordello, simile a un incubo notturno abitato da un vermicaio di corpi  sfatti e sudaticci, dove era sempre il rito della perversione ad avere il sopravvento, con l’azione che si  svolgeva principalmente in platea o si spingeva su piani verticali in movimento ascensionale raggiungibili con speciali montacarichi semoventi, mentre il pubblico assisteva “costretto” in  balconate laterali sovrapposte, ingabbiate da reti, che le rendevano a loro volta simili a delle prigioni contenitive da cui sbirciare il mondo esterno,  che è  stata probabilmente la più scioccante realizzazione scenica fino ad oggi realizzata e anche la più aderente allo spirito. Ne posso parlare con cognizione di causa perché ho avuto il privilegio di vederne ampi stralci filmati durante una “lezione spettacolo” tenuta appunto sul teatro di Genet qui a Firenze  dallo stesso Garcia, sufficienti a evidenziare il senso davvero disturbante di una memorabile realizzazione che se percepita dal vivo doveva possedere una carica eversiva  veramente traumatizzante).

Nell’avanguardia teatrale così densa e importante del secolo scorso, gli anni ’50 per Genet  erano stati soprattutto quelli di Le Bonnes , mentre il ventennio successivo si connota principalmente (ancora teatralmente parlando) oltre che per la straordinaria forza innovativa (anche rivoluzionaria ) di questo Le Balcon, per i più estremizzati, successivi  Les Nègres e Les paravents (tutti drammi comunque composti negli anni ’50 poiché dopo tali esperienze di totale rottura, Genet resterà assolutamente “muto” in questo settore anche se le sue tracce rimarranno – come lo sono ancora – presenti e indelebili, davvero difficilmente obliabili).

Di Les paravents, un testo  “fondamentale” (o meglio “definitivo”) oltre al quale era forse impossibile andare, mi piace per esempio ricordare la “infedelissima” ma genetiana fino al midollo lettura che ne fece Patrice Chereau nel 1983, “ricusando” totalmente i paraventi previsti dall’autore, ma lasciando invece debordare  l’azione in una sala addobbata come un cinema  parigino degli anni cinquanta ubicato in un quartiere arabo, invadendo così - e “colonizzandolo” - lo spazio di solito destinato al solo pubblico. Che il riferimento e l’occasione siano in questo caso attribuibili alla rivolta d’Algeria, è sicuro, ma come al solito, manca  invece ancora una volta l’ideologia certa del bene e de male, della ragione e del torto, e il dramma si svolge dunque senza esprimere alcun giudizio morale di facciata, o meglio in un campo in cui la morale è sostituita dall’estetica della scena, con una verticalità che ricorda le Sacre Rappresentazioni Medioevali e il teatro elisabettiano e una storia  che si racconta, scenicamente parlando, sui paraventi, veri e propri spazi bianchi utilizzabili come lavagne, dove la parola diventa visibile, e i segni indelebili testimonianze.

Prima di questo suo “canto del cigno teatrale” c’era stato però anche l’imponente impegno civile di Les Nègres (rappresentato a Parigi in prima assoluta nel 1959 – e l’anno è particolarmente importante visto il tema -  al Théatre de Lutèce con la regia di Roger Blin)  nel quale  poesia e festa  servono a raccontare proprio l’opposizione più radicale della nostra civiltà, quella delle razze e dei colori: una sera un uomo di teatro  - e sono ancora parole di Genet queste – mi chiese di scrivere  una commedia per un gruppo di attori negri. Ma per prima cosa, di che colore sono i negri? (…) Questa commedia, lo ripeto, scritta da un Bianco, è destinata a un pubblico di Bianchi. Ma se una sera  - il che è poco probabile – la si dovesse rappresentare davanti a un pubblico di Negri, bisognerà ad ogni replica invitare in sala almeno un Bianco, maschio o femmina che sia, altrimenti non avrebbe senso (…) e la compagnia reciterà solo per quella persona. Durante tutto lo spettacolo, un riflettore fisso illuminerà  questo Bianco simbolico.

Ancora dunque tanti  teatri l’uno contro l’altro e uno nell’altro, come in un gioco di scatole cinesi, molto simile a ciò che accade nella società reale, che simboleggia magnificamente proprio il dio nascosto in ciascuno di noi, che provoca il razzismo (un’altra metafora dell’Immagine e il Riflesso in cui anche lo spettatore può rispecchiarsi).

 

Si parlava di “tracce” più sopra: l’importante eredità che Genet ci ha lasciato, avrebbe potuto diventare il cardine di una rivoluzione anche culturale in divenire, ma così purtroppo non è stato e basta gettare uno sguardo anche semplicemente al teatro della contemporaneità tutto ripiegato su se stesso, per rendersene pienamente conto. Si comprenderà così come molte di quelle speranze si sono invece progressivamente perdute nel nulla, se si eccettuano i lavori “dei grandi vecchi” ancora operativi e le esperienze di registi meno legati all’ufficialità, come per esempio qui da noi in Italia lo straordinario Latella, nel depauperamento progressivo della scena che ci fa invece adesso immaginare un tessuto in sfaldamento che si sta definitivamente esaurendo.

Peccato davvero, perché  lo scrittore ha combattuto tutta la vita – come si è visto -  “contro” e “a favore” delle messe in scena dei suoi drammi; le ha ripudiate (quasi sempre) e  qualche volta amate (molto raramente), mai sembrandogli sufficiente la forza trasgressiva della mediazione scenica, il canto e l’urlo degli attori, nonostante lo scandaloso e refrattario atteggiamento del pubblico borghese sempre troppo limitato e indisponibile ad aggiornarsi e prendere coscienza.  Considerava che le sue opere dovessero contenere tutto, poesia e amore, falso e vero, e che dovessero ottenere tutto, la purificazione tragica nata dall’odio per il bianco, con tutti i sensi annessi a questo colore da una vita segnata dal “no” scrive ancora Franca Angelini.

E forse proprio per questo dopo Les paravents, non c’è stata più voglia né tempo di scrivere per la scena (già prefigurando la lenta e costante agonia del teatro alla quale assistiamo sempre più impotenti e sfiduciati oltre che – purtroppo – “disinteressati”?). Probabilmente si è trattato invece semplicemente di una “modificazione” di intenti e di prospettive. E’ importante allora, attingendo ancora alla diretta fonte del pensiero genetiano (i suoi scritti, le sue interviste sono davvero illuminanti a tale proposito) cercare di comprendere meglio quello che per lui era il rapporto stretto che esisteva fra politica intesa anche come potere, e teatro: (…) Ma che cos’è un teatro? E prima ancora: che cos’è il potere? Mi sembra che il potere non possa fare a meno della teatralità (…) C’è un posto però  cui il teatro non nasconde alcun potere, ed è il teatro stesso (intervista a Magazine littéraire rilasciata a seguito dell’occupazione del teatro Odeon da parte di un gruppo di studenti francesi durante il maggio del ’68).

Quando si è forse reso conto dell’inidoneità del mezzo, ha preferito allora mettere da parte quella che si potrebbe definire una “scrittura di invenzione” (o traslazione poetica  delle cose realizzata in forma narrativa e lirica) per passare a un altro tipo si “scrittura” ugualmente forte e destabilizzante,  che anziché dalla propria immaginazione, potesse partire e prendere spunto proprio dai fatti concreti della realtà. Probabilmente invece aveva semplicemente imparando a fondere immaginazione e realtà, per miscelarli magari meno poeticamente, ma con analogo vigore dirompente, in pagine che testimoniano semmai il proprio rinnovato e più diretto rapporto con la vita e con i sommovimenti politici che la attraversavano in quegli anni. Non è forse proprio questo ciò che ha fatto  quando nel 1969, approdato in California, prese contatto con il Black Panther Party,  incontrando così Angela Davis e  scrivere poi l’introduzione  alle lettere dal carcere  di  George Jackson (libro disponibile anche in Italia dal titolo I fratelli di Soledad che ho sicuramente in biblioteca, ma che non sono riuscito a “scovare”, fra le tante cataste ammonticchiate), ucciso nel 1971 nella prigione di San Quintino? O quello che a inteso fare spostandosi poi in Libano e scrivere in favore dei Palestinesi, per arrivare - nel 1983 – a descrivere in termini fortemente allucinati  il massacro di Sabra  Chatila  nella Revue d’études palestiniens?.

Sarebbe probabilmente retorico chiedersi adesso perché un autore che nei suoi scritti aveva sempre evitato l’ideologia  in quanto tale, abbia poi  scelto proprio  la testimonianza politica alla fine della sua vita, poiché a tale  domanda, Genet ha  già risposto eloquentemente e in più di un’occasione,  che non aveva scelto, ma era stato scelto. Rientra quindi in questa più diretta visione delle cose anche la sua provocatoria difesa dei terroristi tedeschi, basata soprattutto su una distinzione  (che non è da poco)  tra violenza come pulsione vitale  e violenza come potere basato sul denaro. Quella dei terroristi – ci ricorda ancora l’Angelini – che appartiene al primo tipo, sarebbe dunque dettata da uno spirito di rivolta sociale vissuta mediante “solitudine, incomprensione, violenza interiore”, analoga a quella del bel criminale cantato dallo scrittore nei lontani anni della sua galera, quasi a voler confermare che la figura che ha dominato la sua vita non è stata la linea retta, ma il cerchio: espulso dalla criminalità a causa della scrittura letteraria, Genet fa di tutto per ritornarvi, per pagare il tradimento del suo passaggio di classe e della sua salvezza; il silenzio e la testimonianza a favore dell’altro colore, si presentano perciò come il compimento di un destino individuale. (…) In lui dunque la scrittura ha sostituito l’omicidio e ne ha simbolicamente  ripetuto sia la proiezione violenta  che il desiderio di cancellare ogni traccia.

 

L’(ir)realismo allegorico degli scritti genetiani (parlo soprattutto di ciò che ha prodotto per il teatro) non era particolarmente congenito a un mezzo come il cinema se non mediato dall’apporto creativo di una personalità “genialoide”, e forse in questo vanno ricercati i tutto sommato sterili, o quantomeno deludenti e “inoffensivi” risultati degli adattamenti diretti dei suoi lavori (per altro molto limitati), se si eccettua la sua stessa realizzazione di Un Chant d’amour  e il Querelle  di Fassbinder (ma le affinità con il regista tedesco, erano ben note ed evidenti anche da prima, si potevano facilmente individuare in molti spunti non tanto sotterranei delle sue pellicole ed erano soprattutto rilevabili dalla interpretazione “politica” di uno dei suoi titoli meno “celebrati” ma fra i più densi di significato, e mi riferisco a La legge del più forte che era certamente una storia d’amore  fra omosessuali - da qualcuno definita inopinatamente persino “patetica” –  ma accompagnata da una analisi che utilizzava proprio la divergenza sessuale per una riflessione crudele e intensa e soprattutto sociologicamente pregnante, sulla differenza di classe  e sull’incidenza devastante che produce proprio negli affetti umani). Paradossalmente i più affini alla sua poetica, quelli che ne ricalcano maggiormente lo spirito, sono quelli che non ne condividono la fonte, come il bellissimo Un homme blessè di Chereau, delicato e appassionato omaggio all’omosessualità riletto e interpretato proprio  in chiave genetiana.

Il resto è invece davvero poca cosa, come la versione  per il cinema con la regia di Christopher Miles con Glenda Jackson e Susannah York interessante solo perché ci permette di “godere” della superba prova delle due attrici, o quella di Michel Dumoulian con Maria Casarès del 1985. Più ancora deprimenti (come si è visto) i risultati di questo Le Balcon di  Joseph Strick  e di  Mademoiselle (conosciuto anche come … e il diavolo ha riso)  terrificante pasticcio realizzato da Tony Richardson su sceneggiatura di Genet stesso, per l’interpretazione di Jeanne Moreau (vedi mio dettagliato giudizio nella scheda relativa a questo titolo presente nel sito).

Non molto frequenti nemmeno i contatti italiani “ufficiali” (solo teatrali) con questo autore (più facile e continuativo il rapporto con i primi due testi che consentono l’utilizzo di pochi interpreti che fanno meglio “quadrare” i  bilanci in tempi di crisi come quelli che stiamo vivendo, e in ogni caso costituiscono un terreno ancora fertile per spericolante esibizioni avanguardistiche). Le Balcon, vivente ancora l’autore, dopo una prima realizzazione scenica nel 1976 con al regia di Antonio Calenda, ebbe invece da noi  il suo “definitivo sdoganamento”  (o meglio la canonizzazione ufficiale) con la regia di Strehler al Piccolo di Milano nel 1976 (regia per altro molto accademica devo dire) e l’interpretazione di Anna Proclemer, Giulia Lazzaroni, Tino Carraro e Renato de Carmine. La messa in scena degli altri due titoli  più complessi e impegnativi anche come numero di attori da utilizzare, è rimasto invece il raro appannaggio di compagnie della residua avanguardia .

L’influenza, magari indiretta, è  stata però ugualmente grande e significativa, e tale rimane ancora oggi (in parallelo con le teorizzazioni artaudiane) proprio al fine di studiare il teatro, le sue leggi, il suo linguaggio, soprattutto quando ancora sembrava potesse esserci un futuro che probabilmente invece le nuove restrizioni governative in termini di sovvenzioni gli hanno definitivamente negato): leggere Genet, tradurlo, studiarlo allora,  ma più che per rappresentarlo direttamente, per acquisirne il metodo e la lezione da applicare altrove, fare diventare concreta e costante realtà quella sua idea estremizzata della messa in scena che lo stesso scrittore sintetizza così: senza sapere di preciso cosa sia il teatro, so quel che gli nego di essere, la descrizione di gesti quotidiani visti dall’esterno: io vado al teatro per vedermi sul palcoscenico (restituito  in un sol personaggio o con l’ausilio di un personaggio multiplo e sotto forma  di favola)  quale non saprei  - o non oserei – vedermi o immaginarmi e tuttavia quale so d’essere. La funzione dei commedianti è perciò quella d’accollarsi gesti e panni  tali da permettere loro di mostrarmi a me stesso, e di mostrarmi nudo, nella solitudine e nell’agiatezza….

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