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I girasoli

Regia di Vittorio De Sica vedi scheda film

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La recensione su I girasoli

di spopola
5 stelle

Essendo parte in causa (nel senso che l’ho vissuto sulla mia pelle quello che la pellicola racconta essendo figlio di una donna che ancora non poteva considerarsi vedova anche se di fatto lo era, ma non si rassegnava a crederci per la mancanza della certificazione ufficiale del decesso) io l’ho sempre detestato questo film che, realizzato in forte ritardo rispetto agli avvenimenti della Storia (il film è del  1970) provava biecamente a riadattarli recuperandoli dall’oblio, per dare però un corpo melodrammatico (che sarebbe stato perfetto per un fotoromanzo di seconda mano) alla dolorosa, sofferta e tormentante speranza di chi qui in Italia non accettava quella possibile morte non provata e men che meno documentata, che aveva un nome ben preciso: ”persona dispersa in guerra ”,  una  condizione terribile di sospensione dalla realtà che creava grosse fratture e traumi nelle famiglie che vivevano  questa esperienza davvero devastante.

 

La speranza, che è sempre l’ultima ad abbandonarci, faceva immaginare infatti (anche per colpa di un finale appiccicaticcio e troppo consolatorio messo lì apposta per confonderci le idee) che il mancato ritorno dalla guerra dopo la disfatta del Don del figlio o del marito, fosse attribuito semplicemente al fatto che, salvato da una donna da quella che altrimenti sarebbe stata una morte certa, lo scampato (il miracolato si potrebbe dire adesso) avesse poi deciso per riconoscenza verso chi lo aveva trovato ed amorevolmente curato, di rimane in Russia dove poi si era rifatto una famiglia e concepito pure altri figli fregandosene completamente di quelli che aveva lasciato qui in Italia. Una leggenda questa che andava per la maggiore in quegli anni disperati e che ha creato gravi danni e destabilizzazione anche psichica ogni volta che i giornali parlavano di un ritorno di gruppi di soldati italiani prigionieri finalmente liberati per la chiusura dei campi di detenzione e per la maggiore apertura dell’URSS verso l’occidente, che riaccendeva la spasmodica attesa di un possibile, tardivo ritorno che solo in qualche caso si è davvero verificato.

Io l’ho sempre considerata una speculazione indecente quella dei giornali dell’epoca (e torno ancora a quel finale posticcio e accomodante che ai miei occhi grida ancora vendetta).

 

Sulla carta il progetto, frutto di una collaborazione produttiva fra Italia, Francia e Unione Sovietica, poteva essere anche interessante per i nomi altisonanti a cui fu demandata la realizzazione a partire da un cast di prim’ordine che è sicuramente la cosa più notevole e positiva della pellicola.

La colonna sonora fu affidata invece (per effetto della co-produzione) a Henry Mancini che ebbe anche una candidatura all’Oscar ma che a mio modesto avviso, pur essendo piena di preziosismi musicali, ha il difetto di accentuare ulteriormente la tendenza verso il melodramma. Che dire poi di una sceneggiatura che io definirei dozzinale, frutto della collaborazione fra Zavattini, GuerraGeorgij Mdivani dove il contesto storico e sociale è trattato poco e male, tanto che sembra essere stata scritta in pausa pranzo da tre intelligenze che non erano riuscite a trovare la quadra.

Per la fotografia fu chiamato un altro professionista di valore come Giuseppe Rotunno (ineccepibile come al solito ma che qui ln alcuni momenti rischia di sfiorare l’effetto cartolina con immagini troppo patinate e di maniera (le lunghe panoramiche su quegli immensi campi di girasole per esempio).

Nemmeno un nome importante come quello di Vittorio De Sica (qui in forte fase calante) a cui è affidato il compito di coordinare il lavoro di tutta l’equipe è stato questa volta in grado di mantenere dritta la barra del timone fino in fondo. Potremmo addirittura dire che ha confezionato una pellicola prevedibile, melensa e scontata che la rende uno dei punti più bassi e discutibili di tutta la sua luminosa carriera.

 

Al di là dei miei disagi che sono strettamente personali e del mio stato d’animo totalmente virato verso il negativo (che sono sicuramente la causa principale di questa specie di corto circuito nella sostanza poco dignitoso) mi sembra davvero che comunque la si guardi (io l’ho rivista proprio recentemente) un’opera che ha un eccesso di retorica e di pressappochismo a volte persino poco sopportabili (le scene di guerra per esempio davvero troppo di manierate e che  qualcuno prima di me ha definito di stampo quasi fumettistico.

Un’occasione mancata su tutti i fronti insomma che ha dato vita a una pellicola piatta e poco rispettosa che si chiude con un finale strappalacrime così appiccicaticcio che grida vendetta messo lì per chi al cinema pretende sempre il lieto fine (che qui comunque non è nemmeno troppo lieto perché lascia aperte molte ipotesi in mancanza delle quali avrebbe fatto ridere persino i polli per la sua artificiosità).

 

Per evidenziare meglio la divergenza fra questa opera troppo patinata e la cruda realtà di quegli anni così tragicamente dolorosi,  per chi vorrà leggerlo, faccio seguire qui il racconto  scritto un po’ di anni fa nel quale descrivo la mia infanzia – e indirettamente quella di mia madre – sconvolta da quella guerra infame e dalla spada di Damocle che pesava sulle nostre teste che spero che aiuti a comprendere le ragioni profonde del mio dissenso.

 

(…) Ed è probabilmente proprio la mancanza della figura paterna che può aver giocato un ruolo non indifferente in tutto questo scombussolamento perché se ritorno indietro col pensiero agli anni della mia primissima infanzia, mi accorgo che la più antica e sofferta ragione che mi ha fatto sentire diverso e incompleto rispetto ai miei coetanei, è strettamente connessa con quell’assenza.

L’unico universo che io potevo esplorare e conoscere nei delicati momenti della mia infanzia, era quello del piccolissimo paese alle porte di Firenze in cui ero nato - poco più di 700 anime in tutto - così lontano e avulso dal resto del mondo in quegli anni carenti di trasporti e di strumenti di comunicazione, da rappresentare davvero una realtà totalmente ripiegata su sé stessa, isolata e chiusa.

E in quel mondo miniaturizzato, io mi trovavo, solitario e disarmato, ad essere il solo della mia fascia d’età a non avere al fianco un uomo a vigilare sullo sviluppo e la formazione della mia personalità, a non poter contare su nessuno che si assumesse il compito di contenere, se necessario con durezza e determinazione, le imperfezioni e gli eccessi.

Non avevo avuto il tempo, né tantomeno la possibilità, di conoscere mio padre, disperso in Russia, sul Don, nella disastrosa ritirata di quell’inverno gelido e desolato che aveva concluso la scellerata campagna di un esercito di disperati malamente addestrati e ancor peggio equipaggiati, mandati allo sbaraglio poveri di armi, vestiti e ideali (l’ultima sua lettera pervenuta, arrivata a destinazione con un anno di ritardo quale conclusiva testimonianza della sua esistenza in vita,  portava la data del 25 di ottobre del 1942, ed io avevo soltanto tre mesi e qualche giorno quando era stata scritta e inoltrata…Dopo, solo buio e silenzio o sbiaditi ricordi e testimonianze di commilitoni superstiti, sopravvissuti in condizioni pietose, ma rientrati ancora vivi e pensanti per documentare quella tragica ecatombe umana.)

Più che l’assenza fisica (non avevo al riguardo tangibili elementi di raffronto), mi mancava il modello con cui rapportarmi, la figura del maschio, tipica della cultura proletaria e contadina del tempo, intesa come quella del patriarca, autoritario e condiscendente, al quale sono demandate in pratica certezze e decisioni, che  ha il compito a volte sgradevole ma necessario, di punire deficienze e inadempienze, e quello di  giudicare e stabilire cos’è bene e cos’è  male, ciò che è giusto fare e quello che invece deve essere evitato. Un piccolo Dio in pectore al quale affidarsi e credere, insomma, a cui dover rispetto e ubbidienza, ma che all’occorrenza può anche farti sentire importante ed esclusivo unicamente concedendoti la possibilità e il privilegio di essere portato in giro la domenica pomeriggio sulla canna della sua bicicletta, per esplorare insieme nuovi mondi e nuove emozioni.

Mia madre e tutti gli altri, hanno supplito come potevano, finendo però solo per viziarmi ed assecondarmi in tutto, pur di compensarmi dell’assenza ed io ho sempre biecamente approfittato di questa condizione di ‘privilegio’, se il termine mi è consentito. Ma niente era in grado di colmare quel vuoto:  non c’era nessuno, quand’ero piccolo che si assumesse l’onere del rimprovero e del castigo, così importante nello sviluppo della propria consapevolezza (e nella definizione dei   limiti che ciascuno di noi deve conoscere e accettare) anche se, sotto le mentite spoglie di angioletto liliale e gentile si nascondeva un piccoso e ostinato ragazzo petulante ed egoista che si stava abituando a prendere e volere molto più di quanto la scarsità dei mezzi e le condizioni di vita del periodo potevano permettergli. E sapeva così bene camuffarsi che riusciva sempre a farla franca, ad uscire immacolato e innocente da qualunque situazione o problema nonostante le cattiverie e i dispetti o le piccole meschinità di ogni giorno: le responsabilità non erano mai sue (era bravissimo ad inventarsi alibi e giustificazioni per mettersi al riparo da ogni conseguenza), ma proprio per questo si sentiva indegno e cattivo di fronte alla propria coscienza, bisognoso di pagare un pegno che in qualche modo lo riabilitasse e gli restituisse quella dignità che riteneva di aver violato con i suoi comportamenti.

E non avrei voluto per tutto l’oro del mondo che mio padre tornasse: avvertivo prepotente e deciso questo pensiero egoista e infame ogni volta che in qualche modo si tornava a parlare di probabili rientri dalla Russia di superstiti prigionieri e si riaffacciava la speranza: la condizione del disperso è terribile, un morto senza il riconoscimento ufficiale che ti obblighi a rinunciare a credere, che ti costringa alla rassegnazione. Così fra illusioni e frustrazioni, alimentate da quel sottobosco immorale e disonesto di fattucchiere, medium e via discorrendo, costantemente visitato dalla mamma per ‘sapere e conoscere’ e che spesso mi portava con sé in questi tragici e disperati pellegrinaggi, apprendevo come in una litania (e le parole erano sempre le stesse, come se si fossero tutti letti nel pensiero o passati la voce – e non poteva essere altrimenti se volevano continuare a spillare quattrini e creare attese) “che quell’uomo era vivo, impossibilitato al momento al ritorno, ma incolume, sia pure con postumi di traumi e ferite, che era stato aiutato da una donna – una russa – che lo aveva curato e salvato e con la quale al momento, per gratitudine e necessità, conviveva (e qualcuno parlava anche dell’avvenuta nascita di un altro figlio) in attesa di condizioni migliori che consentissero il suo ritorno in Italia.”

Ne ho viste e sentite di tutti i colori, origliando in silenzio o sbirciando dal buco della serratura delle anticamere nelle quali venivo spesso relegato: pendolini oscillanti; tarocchi enormi e carte di ogni tipo sparpagliate su grosse tavole in differenti forme e sequenze; fondi di caffè letti in tazze sbrecciate e maleodoranti; scritture indotte e automatiche che stampigliavano sulla carta geroglifici contorti di improbabile interpretazione; signore scarmigliate e in deliquio che camuffavano voce e lineamenti, in presunto diretto contatto con l’al di là, che si inventavano risposte dai morti che son morti ‘or è cent’anni, or è mill’anni’ [1] e che non evocavano invece nient’altro che la loro millantata malafede. Tutte situazioni così assurde e al limite che riuscivano a spaventarmi e a mettermi in uno stato di prostrazione indescrivibile, comunque inferiore e meno spaventoso dello smarrimento totale e della paura oggettiva che provavo ogni volta che varcavo la porta di quella casa di Via Borgo Allegri (una delle visite più frequenti e privilegiate che la mamma faceva) dove abitava una megera attempata di nome Benedetta, che ci scrutava con uno sguardo penetrante e sottile compiendo strani riti con crocifissi e oggetti vari, dava benedizioni o forniva, dietro congruo compenso, amuleti da appendere al collo o da appuntare alla camiciola, odoranti di canfora e incenso. Una casa ricolma di cianfrusaglie polverose con una moltitudine infinita di bambole Lenci strabiche (o così mi sembrava che fossero) scolorite e macchiate sparse su letti e  poltrone, alle quali si mischiavano schiere di gatti ronfanti e spelacchiati, acciambellati e sonnacchiosi, che sbirciavano sornioni, con occhi minacciosi e infidi simili a quelli della padrona. Mia madre riponeva una fiducia assoluta in quella donna che non mancava mai di rassicurarla su un prossimo, sia pure remoto ritorno del marito, una volta che lui avesse saldato i debiti di riconoscenza con la nuova famiglia che lo aveva aiutato a sopravvivere laggiù, nelle sperdute lande della Russia innevata e glaciale. E anche io  finivo per credere che quelle fandonie pagate a caro prezzo fossero verità reali e inconfutabili.

Mi sentivo tradito e abbandonato per questo, accantonato come uno scarto mal riuscito, ma nel contempo, con quel feroce egocentrismo infantile che spesso ci rende insensibili e pragmatici, facevo scongiuri per evitare che si avverassero quelle previsioni che rendevano fiduciosa la mamma: esorcizzavo il ritorno dell’estraneo indesiderato – sognato sovente come un avversario senza volto -  che, rientrando e riprendendo il suo posto in famiglia, mi privava dei privilegi e delle priorità acquisite. Ma i sensi di colpa che non potevo confidare né ammettere, erano così pesanti da ritenere di meritarmi, per questi insani pensieri, l’inferno o anche peggio (ed avevo sempre paura se rimanevo da solo, che il diavolo arrivasse per impossessarsi della mia anima).

C’era invece in me un inconscio, disperato bisogno di quell’uomo, della sua presenza, del suo amore, dei suoi consigli e fin’anche delle sue punizioni, di qualcuno che si affiancasse a quei personaggi, tutti femminili, che avevano segnato le tappe della mia vita, per fornirmi nuove aperture ora che, crescendo, dovevo inevitabilmente scontrarmi con una realtà composita e inaffidabile, addentrandomi in un universo più vasto e variegato, certamente meno protettivo e sicuro di quel piccolo mondo a sé stante in cui ero cresciuto.(…)

 

[1] Gabriele D’Annunzio: “La figlia di Iorio”

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