Regia di Steven Spielberg vedi scheda film
Cinque uomini ordinari intorno a una tavola imbandita: l’israeliano Avner, il sudafricano Steve, l’inglese Carl, il belga Robert, il tedesco Hans. Uno fabbrica giocattoli, un altro vende mobili antichi, uno indossa i colli a punta e i giubbini stretti degli anni ’70, un altro la “divisa” rassicurante della City londinese. Il più giovane, Avner il capo, tenerissimo con la moglie e con la bambina che sta per nascere, ha l’hobby della cucina e ha preparato tutto quel ben di Dio. Ma, come gli dirà più avanti un altro capo, un patriarca francese, che ama cucinare: «Noi siamo uomini tragici: mani da macellaio, animi gentili». Mani da macellaio: i cinque uomini “ordinari”, invisibili tra la folla, che scherzano tra loro in un bar sotto il sole di Roma e che scendono in alberghi mediocri, sono cinque killer, ex agenti del Mossad (dal quale sono usciti appositamente per questa missione) incaricati di eliminare gli 11 cervelli di Settembre Nero responsabili della strage degli atleti israeliani alle Olimpiadi del ’72 di Monaco. L’altra faccia del glamour immaginario di 007, niente Bond girl, casinò, Aston Martin, ma una vita anonima ricostruita di volta in volta nelle città europee in cui li conduce la missione. La precisione mortale dei loro attacchi è però infallibile, anche se talvolta per eccesso di zelo o per errore la loro portata rischia di essere più distruttiva del necessario. Casualties of war, vittime di guerra, innocenti che si vorrebbero risparmiare, finché il sangue, la morte, la guerra in tempo di pace non diventano un’abitudine indifferente. Aperto dalla lunga sequenza eloquente dell’attentato al villaggio olimpico di Monaco, dove Spielberg mescola la ricostruzione immaginaria dei fatti alle immagini e alle voci trasmesse da tutte le televisioni e le radio del mondo, e alle reazioni palestinesi e israeliane alle notizie in diretta che s’inseguivano e si contraddicevano, Munich ci colloca immediatamente in un mondo parallelo al nostro, consanguineo, quotidiano, invisibile, prosaico, dove il massimo delle richieste è «Voglio le ricevute!», ordinato dal “cassiere” del Mossad ad Avner e da lui ripetuto ai suoi “fornitori”, perché fare attentati ed eliminare nemici costa un mucchio di soldi. Un mondo inquietante, non solo perché storicamente vivissimo (la ricostruzione degli anni ’70 è portentosa, perché non sa di passato, non è congelata o “fedele”, ma è allora, con un trattamento delle immagini e dei colori, più o meno saturi, e movimenti di macchina e di zoom che sono cinema anni ’70), ma perché agganciato senza soluzione di continuità al presente, perché noi siamo la nostra Storia e il debito di sangue continua. C’è un popolo che vuole essere una nazione perché la casa è tutto, e un altro che è cresciuto in un kibbutz e perciò considera Israele la propria mamma; in mezzo c’è l’Europa (rappresentata dalla grande famiglia francese di Papa, che vende informazioni a chiunque tranne che ai governi), non neutrale ma “politicamente promiscua”. Dall’altra parte dell’oceano, c’è Brooklyn e la casa, la moglie («Tu sei l’unica casa che ho avuto» le dice Avner) e la figlia. Di fronte, nel ’74, mentre Avner si ostina a chiedere al suo intermediario del Mossad le prove della colpevolezza degli uomini che ha assassinato, svettano ancora le Torri gemelle. Oggi sappiamo per quanto. Non c’è da stupirsi che anche i neo-con americani si siano sentiti punti nel vivo da Munich, che non parla di 11 settembre e di guerra, ma parla di prove, di rappresaglie incrociate, di padri mancati o bugiardi o opportunisti, di “casa” come luogo dell’anima, del bisogno umano di spezzare il pane seduti alla stessa tavola. Con una mano da maestro per il cinema di genere (ogni azione è guidata dal regista con uno stile e una tensione che rimandano all’indietro, direttamente a Duel) e un’attenzione spasmodica e una pietà istintiva per ogni singolo, minimo personaggio (dalla seducente spia olandese alla famiglia francese percorsa da struggimenti edipici, dallo scrittore ucciso a Roma al padre di famiglia vittima del secondo attentato), Spielberg compone un affresco umanista e pacifista, intriso nel sangue e mortalmente stanco di guerra.
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