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Bildmakarna

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su Bildmakarna

di Aquilant
8 stelle

Il mito bretone del “Carrettiere della morte” frammisto al tema del “Canto di Natale” di Dickens costituisce la materia del romanzo “Il carretto fantasma” di Selma Lagerlöf, forse la più famosa scrittrice svedese, premiata con il Premio Nobel per la letteratura nel 1909 e prima donna ad essere nominata fra gli accademici di Svezia, autrice di autentici capolavori tra cui “La Saga di Gösta Berling” e “Il Viaggio meraviglioso di Nils Holgersson”, Diversamente dal racconto inglese, l’autrice sceglie di ambientare il romanzo nei bassifondi della società, descrivendo la vita disagiata dei ceti sociali più umili devastati dalla piaga dell’alcolismo e della tubercolosi, inserendovi l’episodio di un carretto che gira a raccogliere le anime dei morti, condotto periodicamente da un diverso cocchiere fantasma scelto tra coloro che sono stati assassinati alla mezzanotte dell’ultimo giorno dell’anno. Per l’appunto “Bildmakarna” (The Movie Maker), racconta alcuni retroscena, presumibilmente immaginari, connessi con la lavorazione dell’omonimo film a cura di Victor Sjöström, grande regista ed indimenticabile protagonista del “Posto delle fragole”, a proposito del quale Bergman scrive testualmente: ”L’avevo visto la prima volta quando avevo quindici anni, e lo rivedo ancora almeno una volta ogni estate, sia da solo sia con persone più giovani. Vedo chiaramente come Il carretto fantasma abbia influenzato la mia professione, perfino nei più minuti particolari.” E ancora: “Ma finora non avevo capito che Victor Sjöström si era preso il mio testo, l’aveva fatto suo e vi aveva immesso le sue esperienze: la sua sofferenza, misantropia, indifferenza, brutalità, dolore, paura, solitudine, gelo, calore, acidità, noia. Si era impadronito della mia anima nella figura di mio padre e se ne era appropriato: non ne era rimasta neppure una briciola!”
Tratto dall’omonimo lavoro teatrale di Per Olov Enquist, presentato con la regia dello stesso Bergman al Teatro "Dramaten" di Stoccolma nel 1998 e poi filmato due anni dopo per la televisione svedese, il film testimonia l’ennesimo atto d’amore di Bergman nei confronti del teatro e mette in scena la grande Anita Björk nei panni di Selma Lagerlöf, affiancata da Lennart Hjulström (che interpreta il personaggio di Victor Sjöström), dalla seducente Elin Klinga, una delle più promettenti attrici drammatiche svedesi (che dà vita a Tora Teje, a quei tempi protagonista di “Erotikon”) e da Carl Magnus Dellow (Julius Jaenzon). Quattro vite che s’incrociano in un giorno d’autunno del 1920 in una saletta di proiezione.
Ancora una volta Bergman porta il suo particolare mondo all’interno del teatro regalandoci alla venerabile età di ottantadue anni un intenso kammerspielfilm completamente in digitale con sequenze girate in prevalenza a camera fissa, sovrabbondante di campi e controcampi ed intensissimi primi piani ed incentrato principalmente sull’eterno problema del ruolo dell’arte tesa a rivendicare una sua funzione autonoma, non necessariamente vincolata alla materialità dell’esistenza, ma intesa come forma vitale in grado di contribuire a far rinascere ed a trasformare il reale, facendolo risorgere a nuova vita. Il film è filtrato con sensibilità e misura dal tocco quasi magico delle due interpreti femminili, Anita Björk e Elin Klinga, che reggono la scena con grande ricchezza espressiva quasi per l’intera durata, confrontandosi a cuore aperto in un viaggio di reciproca maturazione catartica attraverso l’esperienza del dolore e della sopraffazione paterna.
Ed affiora ancora una volta in superficie quel senso di dolore e di sofferenza mai sopito nelle opere dell’autore, ad irrorare di sé l’ambiente circostante e le anime delle protagoniste, insieme ai rispettivi corpi pensati come immagini viste allo specchio, in grado di divincolarsi come per incanto dalle pastoie della superficie vetrosa per poi parlare, muoversi e guardarsi attorno. Quasi un “Sussurri e grida” vissuto in un conclamato silenzio, in un rapporto genitore-figlia che si ribalta con un’inversione delle parti sfociando alla fine in una drastica scelta di vita, quasi una deliberata non sopravvivenza. “”Stavamo in cerchio intorno a papà e lo guardavamo morire nel centro del cerchio senza vederci l’un l’altro,” la voce di Anita Björk scuote il silenzio “non ricordo come fosse la mamma. Credo fosse meravigliosa ma di lei non ho scritto nulla Vedevamo solo quel bambino che urlava, piangeva e vomitava, mio padre. Io non ho avuto figli, ma ho avuto un bambino, lui.”
I dialoghi fra le due protagoniste di “Bildmakarna” pervengono a momenti di elevata intensità emotiva. Si dibatte anche sulla facoltà dell’artista di custodire la propria intimità senza renderne partecipe il pubblico contrapposta all’obbligo, impostogli come un preciso dovere, di rendere universale il proprio mondo interiore onde elargirlo alla posterità. Un contrasto di opinioni che pone alla luce un dilemma di cui si è fatto carico lo stesso Bergman nel rendere partecipe il mondo delle sue fantasie private, universalizzando gli incubi, i fantasmi e le ossessioni personali.
Ma tali estenuanti dialoghi rappresentano anche una maniera per l’autore di rendere omaggio all’elemento femminile, che risulta come sempre dotato di una particolare sensibilità che fa spesso difetto all’altro sesso. Pillole di saggezza vengono tra l’altro dispensate a piene mani dalla grande Anita Björk, indimenticabile interprete tutto ardore e trasgressività in “Donne in attesa”, che rappresentano nel contempo un’amara riflessione sui compromessi che l’artista si trova ad affrontare al momento di decodificare le proprie esperienze, mutarle d’abito e consegnarle ad una posterità e ad una immortalità garantita. E d’ altra parte vengono anche affrontati i problemi connessi con l’ambiente familiare che secondo il regista finiscono sempre per pervenire ad una decisa spersonalizzazione dell’individuo.
Finzione, eternamente finzione, ma legata a doppio filo con quella stridente realtà che ha elargito il soffio vitale alle presenze metafisiche e surreali bergmaniane facendogli tramutare “sogni, esperienze emotive, fantasie esplosioni di follia, nevrosi, spasimi di fede e pure menzogne” in una creazione artistica che per lui si è sempre manifestata come una fame che pretende un continuo appagamento, conducendolo di continuo ad interrogarsi sulla funzione dell’artista e sui relativi rapporti con il pubblico.
L’autore dimostra ancora una volta un’estrema coerenza con le sue precedenti tematiche e per tale motivo questo “Bildmakarna” è sicuramente da considerare come un ulteriore passo verso una situazione di acquiescenza delle proprie fantasie interiori, senza però perdere di vista una condizione di vita sempre affacciata sull’orlo dell’abisso a contemplare un vuoto pressante la cui evidenza, solamente in parte attenuabile dalla forza del compromesso, sta di continuo a rammentare il grande salto nel buio della più totale incertezza al momento del distacco.

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