Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
Annoverato tra i lavori minori nella filmografia di Bergman, è un film che non m'è dispiaciuto affatto, pur nel suo nichilismo. Qui il regista svedese affronta il "cancro dell'anima" che c'è negli uomini, che hanno cancellato Dio, ma non sono stati capaci di costruirsi un'esistenza senza. C'è chi si rifugia nella menzogna (Anna), chi nella solitudine (Winkelman), chi si fa schermo del sarcasmo (Elis) e chi cade nella fragilità sentimentale (Eva). Ma nessuno è felice. Ciascuno si è costruito la propria prigione - fångelse è una delle parole più usate, nel film, e fa riferimento ad una delle prime opere importanti di Bergman, "La prigione" (1948), appunto - dalla quale non sa o vuole più uscire, ed Andreas Winkelman è forse il più consapevole di questo miserevole stato dell'animo umano. E non c'è rifugio possibile neanche nella natura, sofferente al pari degli uomini, come dimostrano il cagnolino impiccato, il passerotto ferito, le pecore sgozzate e il cavallo bruciato vivo. Il pessimismo bergmaniano è accentuato forse anche dal fatto che il film fu girato durante la crisi del rapporto di convivenza tra il regista e Liv Ullmann, ma, come sempre, Bergman ci tiene a ricordare allo spettatore che sta guardando un film, e in questo senso si spiegano anche i quattro intervalli durante i quali gli attori principali danno un'interpretazione dei loro personaggi (il che fa anche molto sessantotto). Al di là del film c'è la vita (Trasatti) ed è come se Bergman ci volesse avvertire di un pericolo concreto che, da artista, avverte per tutti gli uomini della cosiddetta società del benessere, inaridita anche nelle isolette sperdute ad alte latitudini.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta