Regia di Thomas Bezucha vedi scheda film
Autentici cervelloni gli scaltri distributori nostrani, non c’è che dire! Da qualche parte dell’inesauribile archivio oltreoceanico c’è un ready-made movie che nitrisce e scalpita, denso di buoni sentimenti natalizi, “the Family Stone”, tipico prodotto sitcom-style per l’appunto, appena sfornato, ideato per il grande schermo per la delizia dei poco fini palati americani. Ed ecco partorire l’idea vincente, presumibilmente mirata a far assurgere un simile reperto giudicato “sanza infamia e sanza lodo” a campione d’incassi postfestivo. Già, perché a cagione dell’annichilente e maleodorante presenza delle brancaleoniche armate neriparentiane e pieraccioniane e della straripante arrembanza delle bocche da fuoco jacksoniane, adamsoniane e newelliane, l’immissione della Family Stone (without Sly) nell’arengo natalizio sarebbe equivalsa più ad una dolente “cronaca di una morte annunciata” via suicidio (senza, ahimé, la sempre bellissima Ornella Muti) che ad una mossa ad effetto mirata a far consumare i fazzoletti ad una straripante platea dal cuore palpitante all’unisono per la triste sorte di Sybil, una Diane Keaton per tre quarti isterica e per un quarto zuccherosa, sardonica e malevole quanto basta, ma sempre pronta a rinfoderare in extremis gli artigli in nome della pace familiare. Ed ecco che in seguito ad uno spostamento temporale della programmazione dettato da tali timori tutt’altro che infondati oltre che da un sano senso di opportunismo, la presa per i fondelli nei confronti dello spettatore giunge finalmente a maturazione. Istruzioni per il dosaggio: prendere (non) a caso due titoli di film recenti, possibilmente campioni d’incassi, “la tigre e LA NEVE” e “la bestia NEL CUORE”, shakerarli energicamente insieme con alcuni cubetti di neve ghiacciata ad alto gradiente patetico e versare il tutto nel tumbler, pardon, nello schermo, con una buona dose di acrimonia ed un pizzico di slapstick, completando il tutto con uno spruzzo di politically correct. Et voilà, LA NEVE NEL CUORE è servita. Dilungarci a parlare sulle qualità di tale insostanziale ibrido che nasce come commedia, cresce come dramma e finisce in burletta per carenza d’inventiva, sarebbe superfluo. Profondersi in servili decantamenti ed elogi nei confronti di una Sarah Jessica Parker tutta tirata a lucido nei panni di Meredith, donna in carriera e fedifraga dichiarata, afflitta oltretutto da preoccupante sindrome omofobica, non sarebbe certo rendere un buon servizio all’obiettività dell’informazione, a meno che non si voglia porre a confronto la sua prestazione con la stucchevole performance di un Dermot Mulroney la cui mimica facciale in ogni caso riesce a sopravanzare, seppure di stretta misura, quella di un John Travolta o di un Nicholas Cage al massimo delle loro potenzialità espressive. In definitiva un intreccio sottile di destini dai palpiti sentimentali che lungi dal rievocare il potere fascinatorio del cinema rivisita stilemi e stereotipi della commedia hollywoodiana senza il minimo briciolo d’inventiva. Un’opera fintamente trasgressiva, incanalata sui binari convenzionali del più vieto cinema di consumo, che non fa scrupolo di avvalersi di un sottile meccanismo ricattatorio pur di pervenire, magari per vie traverse, a catturare l’animo dello spettatore. Sventarne o meno il tentativo appare cosa del tutta superflua:il fluire implacabile del tempo è destinato a cancellarne comunque ogni traccia dall’archivio della nostra memoria nel volgere di un battito di CUORE.
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