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I diavoli

Regia di Ken Russell vedi scheda film

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La recensione su I diavoli

di Inside man
10 stelle

Opera che riassume in sé una serie di “best of” degni di nota:

 

- Il miglior film di Ken Russell, in miracoloso equilibrio fra la sorvegliata estetica “free cinema” di Donne in amore e l’incipiente barocchismo della fase successiva (progressivamente contaminata da imbarazzanti derive kitsch).

 

- La miglior interpretazione di Oliver Reed, talentuoso attore spesso limitato dagli eccessi (non solo etilici) di un temperamento indomito, qui superbo nel modulare i tormenti teologico-esistenziali di un prete libertino rinascimentale alla tragica Passione terrena di un Messia dall’etica politica proto-sessantottina.

 

 

- La miglior trasposizione cinematografica desunta da un testo di Aldous Huxley (e mediata dall'adattamento teatrale di John Whiting): il cineasta britannico accoglie la peculiare visione distopica dello scrittore ambientando, senza soluzione di continuità, la narrazione in un passato (l’età barocca del 1634)  dalle sembianze futuribili (architetture razionaliste, istanze anarco-libertarie, amore libero) salvo scaraventarci bruscamente in pieno arcaismo (il clima alto-medievale tra pestilenza, caccia alle streghe e roghi pubblici).

 

- Fra le più belle (e dimenticate) colonne sonore originali di musica contemporanea composta dal grande Peter Maxwell Davies (che purtroppo di lì a poco abbandonerà il cinema). 

  La “contrastata simbiosi” tra atonalità e scene d’epoca tocca vette disarmoniche di assoluta perfezione, che rappresentano ancor oggi una rarità formale applicata alla settima arte.

 

- La miglior scenografia di Derek Jarman (in un film da lui non diretto).

  Il connubio tra delirante misticismo e razionalismo astratto, arte barocca e post-moderna, partorisce un fenomenale immaginario cinematografico in cui i Calvari di Bosch paiono completarsi nelle severe verticalità di Saenredam e le urla di Bacon riecheggiare tra le architetture futuriste di Sant’Elia.

  Un Jarman ventottenne e quasi neofita è chiamato, dall’incosciente consapevolezza di un regista portato a scommettere sul misconosciuto ragazzo dall’estro smisurato, a dirigere e firmare l’art-department, e questo la dice lunga sull’eccezionalità toccata al lungometraggio.

 

 

- La pellicola d’ispirazione sacrale più antidogmatica dopo Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, con cui condivide parecchi punti in comune: entrambi gli autori cattolici di sinistra (Russell ex-protestante convertito); ambedue le opere attaccate, censurate ed accusate di blasfemia e vilipendio alla religione, nonostante diano in realtà corpo a una rappresentazione spirituale fra le più sincere della cinematografia mondiale.

  I dilemmi del prelato “fornicatore” Grandier finiscono per assumere un indubbio spessore ascetico (la celebrazione del matrimonio d’amore è un capolavoro di lirismo) radicandosi in un problematicismo tutto declinato all’attualità degli anni “70, tanto da farne uno dei primi simboli politico/cristologici giovanili di allora (vedi Jesus Christ Superstar).

  Entrambi i lungometraggi andranno incontro a una riabilitazione tardiva di almeno una parte delle gerarchie ecclesiastiche (più Il vangelo di Pasolini in verità, considerando l’alta indigeribilità delle scene orgiastiche tra le esagitate suore orsoline, preti, nobili e cittadini comuni, tuttora largamente purgate).

 

 

- La miglior scelta festivaliera del fervente cattolico G.L.Rondi quale direttore della Mostra del cinema di Venezia 1971, andato inevitabilmente incontro ad un fuoco di fila di aspre polemiche (a quel tempo in Italia i giudici condannavano al rogo - e non per ischerzo - le pellicole invise alle autorità ecclesiastiche).

  Menzione d’onore anche per il poeta e critico Giovanni Raboni, licenziato dall’Avvenire per avere elogiato la pellicola in barba alle direttive editoriali.

 

- In conclusione è il film di Ken Russell (post Donne in amore) meno biasimevole per vocazione ipertrofica dei toni, bulimia dell’immaginario visivo, recitazione sopra le righe e gusto della provocazione fine a se stessa, e non perché tali aspetti/difetti stilistici siano del tutto assenti ma in quanto assolutamente conformi, o meglio integrati al soggetto scelto, ai temi trattati, al clima storico/ambientale e alla costruzione narrativa messi in campo.

  Qui il regista ha successo nell’eludere la tendenziale obsolescenza poetica del suo cinema, azzecca il colpo d’ala realizzando un’opera che sotto ogni punto di vista si imprime nella memoria per potenza, singolarità e, paradossalmente, persino un certo grado di misura.

 

Rabbioso, sanguigno, a suo modo dolce, oramai un evergreen.

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