Regia di Ken Russell vedi scheda film
Le ultime sequenze compendiano superlativamente il senso ultimo del film: non esiste altro inferno che quello terreno. Un inferno che divampa nel turbinio mortifero di fiamme, urla di disperazione, giubili estatici, sguardi bramosi di sofferenza, bocche schiumanti vendetta e danze macabre. L'autodafè messa in scena da Russell è di una forza che non ha eguali nella storia del cinema (nemmeno il rogo di "Dies irae" arriva a tanto): la soggettiva del condannato mostra impietosamente l'agitarsi convulso di un delirio corale, in cui i volti umani si mischiano e confondono con maschere di teschi, in un crescendo caotico che culmina nella distruzione della città: dall'annientamento del singolo alla devastazione generale che non risparmia nessuno, sintetizzati emblematicamente nella scena conclusiva. Dalla breccia apertasi tra le mura di cinta, si scorge una strada fiancheggiata dai pali dei condannati a morte: estremo paradigma di una storia del martirio, che continua senza requie sino a perdersi all'orizzonte.
“L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” (“Le città invisibili”, Italo Calvino).
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