Regia di Brian De Palma vedi scheda film
Ci sono due modi per vedere Black Dahlia. Come la versione cinematografica di un fantastico romanzo di James Ellroy o come un film di Brian De Palma. Nel primo caso hanno ragione i detrattori, a partire da Goffredo Bettini (Festa di Roma) che col senno di poi si dice contento di avere perso la sfida con Marco Müller (Mostra di Venezia) per accaparrarselo. La storia è a dir poco confusa, le situazioni improbabili e gli attori, a parte la vecchia drogata (Fiona Shaw), fanno a gara per chi recita peggio. Nel secondo caso, invece, siamo a un passo dal capolavoro. La cosa incredibile è che più De Palma rende evidente il suo totale disinteresse per il noir e il cosiddetto plot, più non ci si accorge del suo percorso astratto. Non è inverosimile che Kay Lake (Scarlett Johansson) entri in scena con sigaretta, bocchino e mano rivoltata come fosse Ava Gardner nella posa innaturale della locandina di un hard boiled d’epoca? Non è assurdo che in più sequenze (ad esempio quando Bleichert avvisa Kay della morte di Blanchard) gli attori comincino a recitare dopo un minuscolo ma percettibile momento di staticità, come stessero aspettando in scena il “ciak-azione” del regista? Non è un campanello d’allarme quella donna nuda che irrompe nel piano sequenza più ostentato? Con Black Dahlia De Palma prosegue la sua riflessione sul post-cinema iniziata con lo straordinario Femme Fatale. Il cinema è morto perché ormai putrefatto dal virus del déjà-vu, della ripetizione, dell’eterno ritorno dell’identico. Queste sono le sole ossessioni del regista: gli inani stereotipi di cui è fatto il film. E il contagio dell’immaginario prende possesso della vita. È il mondo a essere costruito con il legno marcio di Hollywood, non più viceversa. Siamo passati dalla baziniana “illusione di realtà” all’inquietante (in questo caso sì, siamo in pieno noir) “realtà dell’illusione”. Della precarietà delle cose concrete ci parla Brian De Palma; dell’impossibilità per chiunque, oggi, di raccontare storie.
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