Regia di Brian De Palma vedi scheda film
Si sta filosofeggiando un po’ troppo sull’ultimo cinema depalmiano. L’ultimo grande film del suo percorso artistico rimane ancora Carlito’s Way. Da allora, chissà per quali oscuri motivi, il De Palma si è accasciato su territori bizzarri, passando dall’action adrenalinico di Mission: impossible all’effettismo fine a se stesso di Mission to Mars. Con Black Dahlia inaugura definitivamente ciò che lasciava già presagire in Femme fatale: il filone (personale) di opere sottilmente (inconsapevolmente) minimaliste. Detto in altri termini, De Palma vuol far passare il suo cinema per quel che non è: la metafora delle emozioni e delle pulsazioni che attanagliano il nostro vivere cinematografico (l’impossibilità di trovare l’originalità smarrita chissà dove e perché). Quello di Black Dahlia vuole essere un universo dove la finzione si sostituisce alla realtà per parlare a sua volta della verità. È la fiera del già visto, un cinema enfatico fin troppo ben fatto (curato, leccato e stirato, fotografato con echi evocativi e realizzato strizzando l’occhio al presente) che imita il modello registico del glorioso cinema che fu (da Il grande sonno a La donna del ritratto passando per La fiamma del peccato e almeno un’altra decina di pellicole) sulla base di una potente materia letteraria (c’è di mezzo James Ellroy). A conti fatti, Black Dahlia non incide, non colpisce, non scava. Si limita a rappresentare, e lo fa benissimo, ma non esprime null’altro che patina. Freddo ed esangue, non all’altezza né delle intenzioni né delle aspettative, è addirittura forse privo di una sua ragione di esistenza. Troppo facile liquidarlo come un esercizio filosofico sul mestiere dell’autore intrapreso da De Palma per raffigurare l’illusione del cinema, troppo facile trincerarsi dietro pregiudiziali del genere. Non ha forza, è tutto fumo senza arrosto, perfino la scena di sesso tra Johansson e Hartnett è spoglia di qualunque spinta sensuale. De Palma è tecnicamente ineccepibile, lo sa e se ne compiace. Ma non si può realizzare un film (peraltro complesso, basato su una storia intricatissima a scatole cinesi e senza colpevole) girando a vuoto tra virtuosismi registici ed ammiccamenti cinefili. Anche il cast è stonato, nonostante Josh Hartnett si impegni molto. Un cast composto da bravi attori che non fan altro che palesare l’evidenza: sono belli (Hartnett, Scarlett Johansson, Aaron Eckhart, Hillary Swank) e si piegano all’estetismo della situazione. È la prova più lampante che Black Dahlia tratta di espressione, mostra e non dimostra, vorrebbe essere e non c’è.
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