Regia di Brian De Palma vedi scheda film
1947, Fuga da Los Angeles, fuga dal mondo dei sogni, dal cinema. Il sogno di un film tanto atteso quanto disatteso nei contenuti. Il sogno di una ragazzina di campagna di sfondare nel dorato mondo del cinema passando attraverso la porta di servizio, un ingresso secondario sempre più stretto e soffocante, fino ad arrivare ad ucciderla e con lei tutti i desideri filtrati da una telecamera in bianco e nero che la precipita nell’inferno delle perversioni dei divoratori di sogni. De Palma fotografa benissimo gli anni ’40 e il confine tra illegalità e legalità che li caratterizza, contrasto che si stempera in un limbo comune senza contorni netti di una società in via di definizione. Confini sfumati quelli dei ricchi annoiati e malati di troppo potere che si annacquano e si legittimano nelle frequentazioni di locali equivoci e ed equivoche pratiche sessuali protetti dall’impunibilità della differenza di scala sociale. Confini sfumati anche nei rapporti dei protagonisti, i due poliziotti e la femme fatale riuniti in un triangolo ambiguo del quale non si riconosce la base ma solo i tre vertici l’uno indipendente dall’altro e potenzialmente interscambiabili. La storia si svolge a Hollywood ed è una dichiarazione d’amore del cinema col cinema, il riferimento all’Uomo che Ride è la chiave di volta del mistero dell’orrenda morte della ragazza, la Dalia Nera ritratta in bianco e nero durante i provini per il suo ingresso nel mondo del cinema ma che testimoniano spezzone dopo spezzone la discesa disperata verso l’abisso delle perversioni, della disperazione, della fame (“Non soffrirò più la fame” recita la ragazza, un passo di Via col Vento), dell’annullamento totale, una vita al margine finita al margine della città dei sogni in un fatiscente sobborgo losangeliano sotto la scritta Hollywoodland delle cui luci arrivano sole le ombre. Il film nel film nel film, contorni sfumati che si sostituiscono e si spiegano a vicenda, all’ombra di una convenzionale storia hard boiled di gangster e ricatti. Purtroppo però rimane solo la fotografia di questa ricostruzione meticolosa degli anni ’40, la storia complessa e articolata non decolla, rimanendo un freddo e patinato esercizio di cinema artefatto e sterile, non filtra la passione che dovrebbe divorare le vite dei protagonisti, la storia non è gravida di emozioni, di profondità e tutto si risolve in un meccanico incastro di tutti i pezzi del mosaico, diligente puzzle che una volta composto risulta meno gradevole di quanto non fosse con tutti i tasselli sparpagliati sul tavolo. Troppa carne al fuoco forse anche per il virtuosismo di De Palma qui accantonato in favore di una regia meno personale e i cui unici veri momenti intensi sono proprio quelli del bianco e nero dei tristi provini della Dalia Nera, davvero toccanti. Gli attori infatti a parte l’ottima Mia Kirshner/Dalia Nera vero motore del film, non danno sicuramente una mano alla riuscita dell’operazione risultando, visto la statura del film, tutti clamorosamente fuori parte e qui il confronto con l’altra pellicola tratta dai romanzi di Ellroy, L.A. Confidential è impietoso. Josh Hartnett non ha il fisico da hard boiled torbido, sembra un bambino nonostante l’immancabile sigaretta e il cappello. Scarlett Johansson non regge assolutamente la parte della donna fatale ed entrambi sembrano scimmiottare degli stereotipi dei personaggi dei libri di Chandler, sembrano bambini vestiti da adulti. L’altra femme fatale ha le fattezze mascoline di Hilary Swank che nonostante tubino sigaretta e sguardo penetrante la si riconosce calzante all’economia del film solo vestita da uomo (altro richiamo al classico depalmiano , nell’omicidio del poliziotto). Galleggia nel sufficiente un esagitato Aaron Eckhart l’altro vertice del triangolo, l’altro poliziotto, il cui personaggio possiede se non altro un po’ più di profondità vista l’ambigua personalità che lo caratterizza anche se il tema dell'ossessione per la morte della ragazza, in bilico tra repulsione e attrazione necrofila, perno centrale della storia, rimane colpevolmente in superficie, non viene approfondito e reso plausibile nel contesto del film risultando semplicente una bizzarra caratteristica mal supportata da una reciazione al limite della macchietta. Nulla a che vedere quindi con la fatale Kim Basinger, il giusto Guy Pearce, il duro Russel Crowe e tutti gli altri comprimari di L. A. Confidential che a parte il finale buonista regalano il migliore noir del genere degli ultimi anni. The Black Dahlia rimane invece sospeso tra ciò che doveva essere per la gigantesca macchina promozionale che gli ha aperto la strada e ciò che è stato realmente, contorni sfumati tra la finzione di un cinema d’autore e la realtà di un mondo dello spettacolo che deve divorare denaro e produrre utili macinando i sogni. Che la Dalia Nera sia proprio De Palma?
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