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Appuntamento a Wicker Park

Regia di Paul McGuigan vedi scheda film

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La recensione su Appuntamento a Wicker Park

di scapigliato
10 stelle

Film gemello di Lucky Number Slevin, sempre diretto dal bravo Paul McGuigan, eclettico e con preferenze estetiche più che narrative, Wicker Park, ispirato a L’Appartamento di Gilles Mimouni (1995), è un classico esempio di sceneggiatura ben oliata e studiata nel minimo dettaglio, poi sbriciolata e sparsa lungo l’arco della pellicola senza soluzioni di continuità, regalandoci un gioco ad incastro sbalorditivo, magari pure da manuale, ma ben congegnato e dai risvolti drammatici.

Non ci sono carnefici né vittime nella storia di amore raggirato che coinvolge da un lato Josh Hartnett e Matthew Lillard e dall’altro la bellissima Diane Kruger e Rose Byrne. Tutti hanno i loro perché, i loro percome. Se c’è chi agisce meschinamente, lo fa per amore, non per una imprecisata volontà al massacro. Il bello del film è di essere sviluppato come un thriller sentimentale, di quelli alla Attrazione Fatale, con un triangolo, o quadrilatero, ambiguo e pieno di risvolti enigmatici, per poi concludersi, nell’agnizione finale, come un film sulle varie facce dell’amore e delle sue conseguenze.

Infarcito di richiami hitchcockiani, come la polarità bionda e bruna, oggetto oggi del cinema lynchano, oppure del ritorno misterioso e della sostituzione di persona come già visto e postulato in Vertigo, il film di McGuigan è sia un esercizio di stile che un’opera nuova e originale. È un esercizio perché gioca di citazionismo e di rimandi interni che divertono lo spettatore post-moderno; è un’opera nuova e originale perché lo stile del regista è personalizzato dall’enfatica resa melodrammatica, a tratti ironica - insuperata quella di Lucky Number Slevin - con cui colora ogni scena trovando visivamente il modo con cui portare avanti l’azione.

Giochi di specchi, flashback, bionde e brune che giocano a nascondino col protagonista, un amico fin troppo dentro la storia, terzi personaggi di cui non si conosce bene il ruolo, coincidenze che non lo sono, e soprattutto un confessato e visibile amore per il dettaglio, tutto rende Wicker Park un piccolo geniale capolavoro.

Dalla sua ha poi il cast. Riducendolo anche solo a Diane Kruger e a Josh Hartnett ci troviamo davanti a due attori di gran calibro, mai banali nella resa dei loro personaggi tormentati. Se la bellissima e ammaliante bionda Kruger svolge appieno il suo compito di musa ispiratrice, Josh Hartnett attraversa la sua monomania e la sua bellissima ossessione con evidente tormento interiore. Il tema portante di tutto il film, appunto l’ossessione per la riapparizione (?) dell’amore di tutta una vita, ovvero la Kruger, è un tema caro a molta letteratura, come la nostra Scapigliatura Milanese che ne ha fatto emblema di tutto un movimento, ma è anche un tema portato al cinema spesso e volentieri, a intendere lo stretto legame tra la settimana arte e questa patologica fissazione per un oggetto particolare. I vari modi con cui si può rappresentare tale monomania rasentano sempre la labilità psichica o l’estraniazione sociale, coinvolgendo il protagonista in una clinica discesa nei meandri dell’instabilità psicologica. Trattata a volte con superficialità o ironia, la fantastica ossessione per una donna amata tempo prima che a un certo punto sembra ritornare, e che al suo posto si materializza invece una sua fotocopia in controluce, in Wicker Park è utilizzata dal regista come motore narrativo principale, e dall’attore protagonista come primo referente per lo studio del personaggio. La resa finale del carattere di Josh Hartnett è quindi tutta appannaggio dell’attore stesso che con sapienza sa dosare le pulsioni e non appare mai banale, confermando la sua predisposizione a far parlare i propri scarti recitativi, sguardi, pose, tic, che vanno a completare una recitazione fisica di primo livello.

In ultimo va detto che la regia non copia pedissequamente il cliché di film di questo genere, neo-noir o drammi sentimentali che siano o velati remake di precedenti titoli con storie enigmatiche di doppelgänger, di bionde e brune, di sostituzioni e coincidenze allarmanti, ma gioca autorialmente sia sul piano narrativo che su quello estetico, e anche su quello specificamente filmico, con sovrapposizioni, fotografia e montaggio audaci, firmando la pellicola con uno stile unico e personale, per nulla sobrio, e per nulla databile, bensì predisposto ad essere esso stesso contenuto labirintico dell’intero film, oltre che machiavellica forma cinematografica.

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