Regia di Luigi Comencini vedi scheda film
Opera terminale della “commedia all’italiana”, sordido epitaffio su un genere che meglio di ogni altro ha informato il popolo tricolore degli anni 60/70 sui suoi stessi costumi e malcostumi. Forse influenzato dallo stile corale brevettato oltreoceano dal grande Robert Altman (anche se preconizzato qui da noi dall’altrettanto grande Federico Fellini), Comencini si getta nella difficile sfida di maneggiare un copione premeditatamente dispersivo e del tutto privo di climax e sviluppo drammaturgico. Non essendo Altman o Fellini, men che meno Bunuel, il “terzo uomo” della commedia all’italiana non riesce ad evitare un ritmo lasco e sfilacciato, conseguenza quasi automatica di un copione macchiettistico. Forse un Germi, abituato a zig-zagare fra i barocchismi di sceneggiature dalla forza centrifuga (quelle che scriveva lui), concedendosi tempi morti e digressioni atipiche per una commedia, avrebbe potuto regalare più brio al film. Ma forse è meglio così. Inutile resuscitare un morto. Per celebrare l’agonia della “commedia all’italiana”, specchio della degenerazione di quel popolo di cui si è fatta referente negli anni d’oro del nostro cinema, la mano blanda e rassegnata del buon Comencini è la soluzione ideale. E’ ammirevole come il regista riesca ad appiattire il tono generale, al punto di mimetizzare quasi la presenza di star come Sordi, Tognazzi, Mastroianni, Sandrelli in un universo di archetipi dello scempio italiota; alla stessa stregua, ogni distanza fra reale e assurdo, come fra comico e tragico, pare quasi erosa da un vento di cinismo prosciugato dai residui sentimentalisti di Scola e Monicelli. In questo senso, la scena clou è quella dello stupro: la “reazione” dei quattro bifolchi in macchina non suscita ilarità, ma solo un’infinita pena. Ancora: un altro merito a Comencini va annoverato sul mero piano figurativo e di messinscena. Il modo suggestivo con cui inquadra l’ingorgo, con inquietanti architetture di ruderi della civiltà dei consumi (l’automobile), ha un gusto apocalittico-fantascientifico piuttosto raro nella nostra cinematografia, eccezion fatta per l’inarrivabile Marco Ferreri. “L’ingorgo” è, in definitiva, una gigantesca allegoria del Belpaese di ieri e, a giudicare anche dallo stallo istituzionale di questi giorni, di oggi.
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