Regia di Maurizio Ponzi vedi scheda film
Come ben sappiamo, Ponzi all’inizio di carriera è stato un apprezzato recensore di cinema su molte riviste specializzate del periodo (“Cinemasessanta”, “Cinema &Film”, collaborazioni con i “Cahiers du Cinéma”).
La provenienza dalle fila della critica militante ha indubbiamente segnato molto anche la prima parte della sua attività di regista nel definire e mettere in luce un eccesso di ambizioni (non tutte alla sua portata) evidente frutto di un velleitarismo intellettualoide fastidiosamente presuntuoso visti gli elevati obiettivi che sembrava volersi porre[1], pur se in possesso di un mestiere già abbastanza maturo ma ancora poco rifinito e non completamente a fuoco (la difficoltà oggettiva di passare dalla teoria alla pratica senza avere alle spalle una preparazione tecnica adeguata). Sta di fatto, che gli unici risultati solo un po’ più decenti (ed apprezzabili) dell’intero suo percorso di autore ormai arresosi all’evidenza dei suoi limiti, li ha poi raggiunti (dopo una pausa durata ben 7 anni, che sono quelli che separano Il caso Raoul - 1975, da Io, Chiara e lo Scuro - 1982) in tempi molto successivi ripartendo proprio da Nuti, ma in veste di alacre “artigiano” buono per tutte le stagioni, di uno insomma che ha definitivamente abbandonato i suoi bellicosi propositi iniziali, ed è di conseguenza disponibile a pianificare il suo lavoro passando ad operare in settori più commerciali (e a volte anche un po’ più corrivi) al servizio dei quali è ben più consona e appropriata la sua indubbia capacita di gestire decorosamente (ma senza troppi “voli pindarici”) la cinepresa e di impaginare le storie che gli vengono commissionate con una certa eleganza (ma senza strafare), così da farlo diventare a tutti gli effetti un onesto ma un po’ anonimo ”mestierante” come ce ne sono tanti senza mai approdare però a un livello di “accettabile originalità creativa”, e di fatto dunque solo parzialmente e a tratti, al di sopra della mediocrità.
Eppure con I visionari (1968) aveva tentato di fare davvero le cose in grande (l’ambizione smisurata di un debuttante!, si potrebbe dire col senno di poi) partendo addirittura da Musil (la commedia I fanatici, rielaborata in forma di sceneggiatura da Eduardo De Gregorio[2] e un cast di tutto rispetto a disposizione formato dai prestigiosi nomi di Jean-Marc Bory, Adriana Asti, Olimpia Carlisi, Luigi Diberti e Pierluigi Aprà), tanto da aggiudicarsi persino il primo premio al Festival di Locarno e gli apprezzamenti sinceri di Pier Paolo Pasolini che ne intessé le lodi definendo la pellicola un film misterioso, enigmatico, perduto dentro il suo mondo prefilmico come in un sacrario (…) una rievocazione del cinema degli anni Trenta fatta in un modo e con un’ intensità che non hanno finora modelli (…) e mai rievocati secondo il gusto di una cultura cinematografica tanto raffinata e matura come in Ponzi".
Francamente, ci ho sempre trovato dentro poco o nulla di tutto questo, ma ci può anche stare che non me ne sia proprio accorto, e che di conseguenza sia ancora io quello che ha preso un granchio perché la mia visione risale a molti anni fa ed è dunque solo il riflesso di un pallido ricordo quello che mi porto appresso (e poi, ammettiamolo pure, se lo diceva Pasolini. ci devo credere: chi sono io per poterlo confutare?)
Comunque sia, anche nella migliore delle ipotesi, lo potremmo considerare un effimero fuoco di paglia spentosi velocemente, perché gli andò certamente molto peggio con questo suo secondo impegno derivato ancora da un libro importante (sia pure con qualche significativa variazione) e più esattamente da un racconto pubblicato nella raccolta Le donne muoiono[3]di Anna Banti (con cui la scrittrice aveva vinto il Premio Viareggio nel 1952) sceneggiato dallo stesso Ponzi insieme a Salvatore Samperi allora all’apice del suo periodo più iconoclasta che lo collocava sul mercato come una specie di Bellocchio di serie B (può sembrare persino sorprendente questa definizione per chi lo ha conosciuto solo come il furbo inventore di Malizia[4]ma anche lui, prima di cedere le armi, ha avuto un pregresso da barricadero post-sessantottino). Ne è uscita fuori un’opera, che si ingorga malamente impantanandosi in un terreno molto scivoloso senza mai riuscire a trovare il giusto equilibrio narrativo dentro a una strana commistione un po’ indigesta che si dibatte con una buona dose di confusione, fra dramma psicologico e cinema gotico-fantastico senza però essere poi capace di dirci chiaramente da che parte intende stare.
Il film prende origine infatti da uno spunto fantastico assai intrigante (almeno sulla carta) che tratta di una strana malattia (o presunta tale) sospesa in un alone di mistero che lentamente contagia tutto il genere maschile ma lascia indenni le donne, un qualcosa di molto particolare insomma che si insinua nelle menti e costringe gli uomini, uno dopo l’altro, a partire alla volta di un luogo imprecisato da raggiungere le cui tracce sono perse nella loro immaginazione. Le autorità, per contenere l'ondata di caos che questa specie di delirio collettivo finisce per creare, dispongono l'arresto di questa massa di individui instabili e la loro detenzione forzata in ospedali specifici per malattie mentali.
Fra questi, c’è anche Benedetto che, grazie all'aiuto di un medico suo amico, riesce a farsi liberare dalla detenzione per andare alla ricerca di un castello che focalizza spesso nella sua mente come l’obiettivo finale della sua ossessione. Sarà proprio quel misterioso maniero abitato da una ancor più misteriosa donna il punto di arrivo a cui approderà alla fine del viaggio e lì, l’uomo inizierà finalmente a capire che quella inesplicabileepidemia altro non è se non il riaffiorare delle memorie di un’ipotetica propria vita precedente (che – nel caso specifico - sono poi quelle che erano appartenute al vecchio proprietario del maniero morto durante la prima guerra mondiale).
In teoria dunque un tentativo indubbiamente coraggioso quello di provare a realizzare un ibrido che affronta il mondo del fantastico mantenendolo sospeso a metà strada fra visionarietà e sociologia reale, esattamente come faranno solo qualche anno dopo andando più o meno nella stessa direzione, anche Silvano Agosti (N.P. – Il segreto - 1971) e Emidio Greco (L’invenzione di Morel - 1974) con esiti indubbiamente più felici. Qui purtroppo c’è un fastidioso eccesso di ampollosi dialoghi che appesantiscono il tutto e un ritmo un tantino singhiozzante che non sembra mai essere quello più appropriato e giusto.
Non esistono altre vite. Esistiamo io e te
Intriso di misticismo, il film è un'evidente metafora di difficile resa filmica diluita com'è in una ripetitività davvero troppo insistita che rischia di trasformare il tutto in un'allegoria fine a se stessa o addirittura in una specie di irrisolta distopia fantascientifica che - in quanto tale - anzichè rendere più evidente proprio attraverso la mediazione del fantastico la realtà ogettiva che si intendeva rappresentare, finisce invece per negarla clamorosamente.
Ponzi infatti in questo suo sofisticato progetto decisamente superiore alle sue forze, ha troppe oscillazioni tra la tentazione di definire e precisare realtà concrete e il bisogno opposto di dissolverle e finisce così per fare addirittura naufragare (e dissolvere) anche il bellissimo testo di partenza della Banti nel ridurre il tutto a uno strampalato “pasticciaccio brutto” senza capo né coda simile alla storia ben più banale che si potrebbe riassumere in quella di un paziente psichiatrico accompagnato dal suo medico alla ricerca di se stesso.
Se vogliamo poi lasciare da parte la sfera delle ambizioni eccessive frutto di quell’immodestia davvero smisurata a cui ho accennato prima, possiamo dire allora che ci troviamo di fronte allo scontato tema di una diversità (trattata però senza la dovuta accortezza) scrutata con un’ottica, un’ideologia e una paura/pietà così accentuata e sterile, che distanzia inappellabilmente il risultato non solo dagli analoghi universi fantasiosi esplorati dai Agosti e Greco, ma anche da quelli sociologici e sperimentali trattati per esempio con ben differente forza e cognizione di causa, da un Pasolini o da un Carmelo Bene con le cui opere - volendo – il film di Ponzi potrebbe anche aver cercato qualche labile spunto di convergenza “critica”.
A parziale difesa del regista, la scarsissima quantità di fondi messegli a disposizione dalla produzione (il budget era veramente irrisorio) e la penalizzante distribuzione in sala che rese da subito il film un “invisibile”.
Interessante ma un po’ disomogeneo il cast (anche nella resa) che annovera la presenza in primo piano di Claudine Auger affiancata da Delia Boccardo, Paola Pitagora, Olimpia Carlisi, Giancarlo Sbragia (il migliore in campo), Paolo Turco, Daniele Dublino, Lea Padovani, Claudio Gora, Stefano Ardinzone, Carlo de Mejo e Emilio Bonucci. Musiche di Fiorenzo Carpi.
[1] Ponzi aveva mosso i primi passi in questo settore più creativo nel 1966 in qualità di assistente di Pier Paolo Pasolini per l’episodio “Fiore di carta” inserito nel film “Amore e rabbia” realizzando poi, prima di passare ai lungometraggi, due documentari, uno ancora girato nel ’66 (“Il cinema di Pasolini”) e l’altro nel 1967 (“Verso Rossellini”) che stanno a indicare chiaramente quale era la strada ispirativa che era intenzionato a seguire.
[2] Eduardo De Gregorio (1942- 2012), argentino di nascita ma vissuto per molto tempo a Parigi, fu fortemente influenzato in gioventù dal cinema di Eisenstein, di Bergman e di Antonioni, ma la sua vera passione fu la Nouvelle Vague, e soprattutto Truffaut (“I quattrocento colpi”) e Godard (“Fino all’ultimo respiro”). Anche regista in prima persona, in veste di sceneggiatore, ha collaborato soprattutto con Jacques Rivette (Cèline e Julie vanno in barca”, 1974; “Noroît” e “Duelle”, 1976 e “Merry-Go-Round”, 1981). Per l’Italia, oltre a “I visionari” ha scritto anche la sceneggiatura de “La strategia del ragno” di Bernardo Bertolucci. Come attore invece, nel 1980 ha recitato nel film “Le jeux ne veulent pas en tout temps se fermer ou peut-être qu’un jour Rome se permettrà de choisir à son tour” di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet.
[3] Le donne muoiono, uno dei libri più importanti e misconosciuti della Banti (viene subito dopo Artemisia e prima di Noi credevamo) è quasi un manifesto politico sulle ingiustizie che le donne hanno subìto nei secoli, sulla cancellazione della memoria di metà dell'umanità ad opera di una storia troppo neutra e di parte costruita e scritta ad uso esclusivo del genere maschile.
Il racconto, bellissimo per la fantasia visionaria e per le sorprendenti intuizioni che contiene, è ambientato nel 2617 (dunque in un futuro molto lontano), e narra di una grande rivoluzione che ha sconvolto la vita del solo genere maschile (l’unico a poterne beneficiare) e aperto la porta a una possibilità di rinascita che permetterà di raggiungere una specie di immortalità indotta almeno a una parte cospicua dell’umanità, grazie alla ricomparsa di ricordi mutuati dalle loro vite precedenti, privilegio questo non presente nel genere femminile dove nessuna donna è riuscita invece ad evocare un qualcosa proveniente da un’ipotetica esistenza antecedente.
Un segno dunque di un’atavica esclusione di genere rivolta al genere femminile destinata a far risorgere e amplificare antichi pregiudizi e rancori tutti legati alla condizione da sempre subalterna dell’universo “donna” sul quale però la Banti apre in chiusura uno spiraglio di positività , presentandoci appunto una signora (Agnese Grasti, musicista e compositrice) che nel 2710 si troverà a suonare le note di un antichissimo adagio, meravigliandosi di riconoscerle senza averle mai studiate o ascoltate prima. Sarà l’avvio di un percorso in cui la sua mente verrà progressivamente invasa da molte ombre che reclamano spazio dentro ai suoi ricordi, fino a che l’intera memoria dei millenni passati arriverà a fluire genuina anche dentro di lei cominciando a incrinare quel mondo di subalternità femminile creata dall’uomo.
[4] Quando collaborò alla stesura di questa sceneggiatura, Samperi (e si avverte benissimo) aveva da poco licenziato e distribuito in sala il sul film tardo-sessantottino Uccidete il vitello grasso e arrosti telo, rilettura politica un po’ tirata per i capelli della parabola evangelica del figliol prodigo che, con una piccola dose di erotismo che non fa mai male, cerca di coniugare fra loro la psicanalisi e il giallo con le tematiche socio/politiche del periodo (e dove forse rivisto adesso, si salva solo l’inquietante colonna sonora di Ennio Morricone).
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