Regia di Terrence Malick vedi scheda film
1607, tre navi provenienti dall’Inghilterra dopo un viaggio di svariati mesi riescono a raggiungere le coste dell’attuale Virginia. Il loro arrivo sconvolge l’equilibrio della tribù indigena dei Powhatan, soprattutto nel momento in cui la loro giovane principessa stringe un profondo legame con uno dei colonizzatori, il tormentato capitano John Smith.
La leggendaria storia di Pocahontas è una delle più celebri e romantiche versioni dell’incontro, spesso traumatico, tra i nativi americani e gli esploratori inglesi; scarsamente documentata da fonti attendibili e travisata nel corso degli anni, ha sempre suscitato una forte attrattiva ed ha avuto anche diverse trasposizioni cinematografiche, benché sia stata resa celebre soprattutto dal cartone della Disney, datato oramai 1995. In questo film, la vicenda della coraggiosa indiana, viene rivisitata in maniera più realistica ma altrettanto sognante, diventando una sorta di parabola sulla redenzione dal sapore filosofico e quasi religioso.
Non avevo mai visto prima d’ora un film di Terrence Malick, perciò non posso fare paragoni con altre sue opere, ma è indubbio che il tocco e la personalità del regista abbiano un peso consistente nella economia di questa pellicola che, pur trattando un argomento e un soggetto già essenzialmente non originali, né aggiungendovi particolari innovazioni, riesce a conferire alla narrazione un andamento ipnotico e suggestivo, attraverso un uso poetico della fotografia particolarmente sensibile nel rappresentare la purezza della natura incontaminata e lo scontro impari e crudele tra civiltà distanti culturalmente, che tuttavia trovano un punto di contatto, almeno in apparenza. Più che la sceneggiatura, dotata di dialoghi scarni e ridondanti, è la sua camera ad offrire molteplici spunti di riflessione accostando tra loro immagini contrastanti dei due popoli che si approcciano per la prima volta.
Malick tralascia gli aspetti più efferati della devastazione di un mondo, derivata dall’imposizione degli inglesi sul territorio americano. Il suo sguardo, infatti, sembra coincidere con quello meravigliato, ingenuo e innocente della protagonista, a tal punto da permeare la pellicola di una sensibilità molto femminile e di un senso di serenità, al di là delle situazioni drammatiche. La figura dell’indiana Pocahontas è il simbolo di quel perduto rapporto totale e totalizzante con la natura, di un’esistenza semplice ed equilibrata, scevra dalle ossessioni per il denaro, il potere e il successo. È insomma, la classica rappresentante estetica del “buon selvaggio”. Gli inglesi, di contro, sono dipinti come peccatori, privi di scrupoli, inconsapevoli e sprezzanti del valore della vita, fino al paradosso non solo di uccidere, bensì anche di cannibalizzarsi, e non in senso puramente figurato. La protagonista è impersonata da Q'orianka Kilcher, giovanissima interprete di origine quechua al suo debutto sul grande schermo, la quale si cala nei panni dell’eroina con grazia e naturalezza, scandendo le scene più luminose e quelle più tristi con eguale efficacia. La affiancano un Colin Farrell, John Smith dal fascino rude ma dalla recitazione a tratti un po’ monocorde, e un valido ma sacrificato Christian Bale, nella parte del secondo amore della bella indiana, ovvero il vedovo John Rolfe che diverrà suo marito e padre dell’unico figlio.
Dilatato nei tempi, forse troppo sbrigativo nell’ultima parte che perde un po’ del suo incanto e della sua temporalità, è comunque un film che val la pena di vedere se si apprezzano le tematiche storiche e naturalistiche.
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