Regia di Terrence Malick vedi scheda film
Un film generoso. Troppo. Un film sovraccarico sia dal punto di vista dei contenuti sia da quello della forma. C'è tanta carne al fuoco, come nel miglior Herzog: l'ambizione umana, il confronto tra natura e cultura, la sopraffazione, il processo immanente, sconcertante ed incomprensibile che porta alla generazione del Male, covato nel grembo materno materializzato nelle meraviglie del Creato, la visione panteistica dell'esistenza. Ma a differenza di Herzog, manca la misura, la coesione interna fra le tematiche presenti: lo sfilacciamento, purtroppo, non è solo nella trama (e questo ci può anche stare, anzi è necessario al concetto di cinema di Malick), ma anche nello sviluppo dei contenuti. Stesso discorso per la forma: troppe inquadrature, troppi sguardi, troppe prospettive (ma anche questo è coerente con l’idea di Malick di rendere il fervore, il vitalismo intrepido, l’ansia di vivere che accomuna bianchi e indios attraverso un utilizzo fitto di immagini in continua evoluzione); un utilizzo esasperato delle voci off (talora sovrapposte o alternate); dialoghi/monologhi verbosi, ostinamente incentrati su semplici (e talora retorici) concetti filosofici che vanno alla radice dell'esperienza umana su questo pianeta. Troppi interrogativi. Malick, per tutta la durata del film, gira attorno alla sostanza dell'opera, senza mai voler (o riuscire a) prenderla di petto. Come mai allora questo film merita di essere visto ed apprezzato? Forse perché contiene momenti di cinema altissimo: il primo sbarco dei coloni, visto dalla prospettiva degli indios; una scena d’amore tra John Smith e Pocahontas più o meno a metà film (forse la scena d’amore più ricca e più espressiva che abbia mai visto al cinema: degna del cinema muto maggiore); Pocahontas che fugge dalla cinepresa (da noi), corre felice in un prato e si gira a sorriderci.
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