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The New World

Regia di Terrence Malick vedi scheda film

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La recensione su The New World

di chinaski
6 stelle

L’approdo degli inglesi in Virginia segnò veramente la scoperta di un nuovo mondo. Non tanto in senso geografico ma quanto nell’apertura di un nuovo ordine delle cose, di una nuova possibile forma di vita. Nell’esperienza che Smith compie nel villaggio indiano nel quale si ritrova, si racchiude tutto lo stupore, il mistero (velato di paura, come per tutte le scoperte) la fascinazione e la purezza che può portare l’accorgersi di altre forme di esistenza e comunità diverse dalla propria.
Completamente inseriti nell’ambiente che li ospita (la Natura, madre di ogni essere vivente) gli indiani rappresentano una di quelle rare eccezioni in cui l’uomo è riuscito a trovare un equilibrio tra il proprio essere e il mondo che lo circonda. Smith, oltre che dalla bellezza di Pocahontas, è colpito proprio dalla possibilità concreta (che vede con i propri occhi) di poter vivere in una maniera diversa.
Questo, credo, sia stato l’intento di Malick, mostrare come prima dell’arrivo della cosiddetta civiltà (che poi è sempre quella occidentale) ci fossero altre forme di organizzazione umana che avevano trovato un loro giusto equilibrio. Il film quindi non si sofferma solo sull’estatica contemplazione di un eden perduto ma vuole mostrarci proprio il momento in cui qualcosa in quell’equilibrio fu rotto. E naturalmente è stato l’uomo occidentale a distruggere il tutto, proprio perchè incapace (nel corso dei secoli) di creare un rapporto paritario e di integrazione con il prossimo e l’ambiente circostante e anzi esportando (come sempre accade) il proprio monolitico punto di vista sulla vita oltre che le proprie volgari usanze. Il film quindi mostra come la creazione di un nuovo mondo (un nuovo modo di vita) sia stata impossibile, perchè gli occdentali invece di lasciarsi alle spalle tutti i loro millenari errori non hanno fatto altro che portarseli appresso per infettare una nuova terra e delle nuove persone.
La permanenza di Smith nel villaggio indiano sfocia nelle immagini di una natura che diventa Realtà nella quale l’uomo si confronta con se stesso e l’ambiente che lo circonda. Una realtà fatta di alberi, raggi di sole, acqua. Una realtà che racchiude uomini che non conoscono il possesso o il rancore, che fluiscono come ogni altro essere vivente che hanno intorno. Ma questo per la mente occidentale di Smith può essere vissuto solo come momento onirico, come utopia irrealizzabile che si disgrega una volta che egli torna nel proprio accampamento.
Un luogo dove dovrà subito scontrarsi con un’altra realtà, quella in disfacimento, misera, vigliacca di quegli uomini a cui lui appartiene. Mano a mano l’esperienza fatta con Pocahontas e gli indiani diventa (per Smith) niente più che un dolce ricordo, per poi svanire definitivamente tra le urla e gli orrori degli uomini che lo che lo circondano. Chi impazzito per la fame, chi accecato dall’oro (si cerca la fortuna, ma non ci si preoccupa di bere o mangiare). Nel fortino osserviamo un’umanità ridotta all’essenza animalesca del proprio essere, il semplice sopravvivere (il cannibalismo, il desiderio del potere) riporta l’uomo ad uno stato di primitivismo agghiacciante.
Gli inglesi non riescono quindi a cambiare la propria prospettiva come doveva accadere. Rimanendo chiusi nella propria ottica non fanno altro che riscostruire l’Inghilterra nel nuovo mondo. E così poi nei secoli seguenti nasceranno gli Stati Uniti, con lo stermino di un’intera etnia (gli indiani d’america) che avevano invece saputo trovare in quelle terre la propria dimensione esistenziale.
Se tutta la prima parte del film ci fa partecipi di questa possibilità data agli uomini partiti dall’Inghilterra, il resto del film ci mostra come tutto poi vada alla fine sprecato nella sterile riproposizione delle stesse gerarchie e degli stessi modi di vita che gli inglesi si sono portati da casa.
Ed è proprio nella prima parte che anche il lavoro filmico di Malick sembra essere migliore. Monologo interiore, brevi riflessioni filosofiche sulla Natura, una consequenzialità emozionale e non legata a passaggi logici, in definitiva un nuovo modo di sentire e di esperire il mondo che abbiamo intorno. E in questo Malick è bravissimo perchè ci porta sensorialmente nel nuovo mondo e ci lascia sorprendere (come succede a Smith) da tutto quello che abbiamo intorno.
Poi la prospettiva del film cambia. Il protagonista non è più Smith, che decide (per quanto affascinato) di non poter far parte del mondo degli indiani, ma Pocahontas; e il nuovo mondo (che anche lei scopre lentamente) diviene quello della cultura anglosassone prima e dell’Inghilterra stessa dopo.
L’errore commesso da Malick è stato però quello di non cercare una controparte concreta, stabile (come succedeva ne La sottile linea rossa) per i momenti in cui la Natura diventa cuore delle riflessioni esistenziali dei personaggi. Quindi se nella prima parte questa forma narrativa funziona bene, nella seconda ci ritroviamo in balia di una narrazione troppo espansa che perde la sua capacità di cogliere le relazioni profonde di quello che vorrebbe raccontare. Il film quindi naufraga in una banale storia d’amore, si perdono le atmosfere, le paure, le sensazioni di tutta la prima parte e quella forma di monologo interiore che sembra caratterizzare Malick si disperde in una riflessione sterile, quasi di maniera. Il film perde la sua magia e si trascina verso un finale incapace realmente di emozionarci.
Merito però a chi usa ancora il cinema come strumento sinestetico e ha il coraggio di ricordarci che questo mondo, il nostro mondo, è solo uno dei tanti possibili e forse neanche tra i migliori.

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