Regia di Terrence Malick vedi scheda film
Virginia, 1607: l’utopia dell’amore, tra l’erba lunga nel vento, i mari e i fiumi, i passaggi di stormi fra le nuvole, il pensiero, la poesia e il sentimento metafisico. Ancora una volta il regista che sette anni fa ci ha lasciato con un capolavoro, dal titolo La sottile linea rossa, incanta, ammalia, sconvolge i sensi e lo sguardo con un film immenso, The new world.
E s’è vero che di un mondo reale si parla, a fare da sfondo a tutte le vicende del film c’è proprio quel mondo degli affetti incontaminati, che ormai sembra appartenere a popoli molto lontani da noi, i selvaggi. E’ sulle sponde di una terra sconosciuta, che solo successivamente prenderà il nome di Virginia, che sbarcano le tre navi inglesi, con il loro carico di speranze e ambizioni. Dopo aver fondato Jamestown, ben presto i coloni si rendono conto delle dure condizioni ambientali, della mancanza dell’agognato oro e, soprattutto, entrano in contatto con gli abitanti del luogo, sotto la guida del capo indiano Powhatan. È in questo ambiente che si intreccia la storia d’amore tra John Smith e la principessa Pocahontas, figlia del potente Powhatan, che si troverà sospesa ed intrappolata tra due mondi.
La colonizzazione e la barbarie degli umani bianchi, oltre a contaminare le terre vergini e fino ad allora inesplorate, fanno in modo che anche un nativo americano, lasciata la bellezza naturale della sua terra, si trovi con stupore di fronte all’artificiale magnificenza di un giardino all’europea, nella brumosa terra inglese, imbattendosi così nella sorprendente bramosia, tutta occidentale, di manipolare tutto, soprattutto ciò che è agli occhi dei bianchi superiore, per ridurlo a propria misura.
Malick, seguendo uno stile assolutamente personale, che combina poesia ed immagine, un uso della parola misurato insieme all’utilizzo di una luce naturale, seppure attraverso una storia d’amore tra le più conosciute al mondo, dipinge e scolpisce nello sguardo dello spettatore due mondi che si incontrano per la prima volta. Il primo barbaro e primitivo, a differenza del secondo, oramai quasi estinto a causa dello sfruttamento eccessivo dei suo abitanti. E se nel primo i nativi americani vivono con naturalezza, traendo il meglio possibile dal rapporto con la natura, nel secondo gli inglesi preferiscono subito arrogarsi il diritto di erigere una città-fortino, una minacciosa palizzata, che li protegga e abbia il compito di escluderli dalle meraviglie circostanti. Infatti, il mondo, lì fuori è per lo più di fango, case buie e piccole, abitate da gente ammalata, ma ‘grande’ interiormente. E’ nell’animo di questi popoli che Malick sembra accorgersi di certi sconfinati paesaggi d’erba e sole, pioggia e vento. Non ha timore, perciò, di entrarvi con la macchina, facendo attenzione di non ‘contaminare’ la visione assolutamente pura, che scorre con la stessa lentezza del liquido venoso. Qui s’incontrano due presenze, quella di Rebecca, della straordinaria Q’Orianka Kilcher, quindicenne attrice di origine Quecha (Perù), e il capitano Smith (Colin Farrell in stato di grazia anche fisica).
Con quanta maestria Malick, a mo’ di uno storico che filtra la storia, di un romanziere che setaccia la trama, di un antropologo studioso del solo miocardio umano, meglio di un qualsiasi giornalista di guerra che però sa raccontare solo la pace, di un filosofo che combina animismo e darwinismo, riesce a fare più del suo mestiere: raccontando l’arrivo e la permanenza di una missione, il cui intento vero è quello di imporre ogni genere di convenzioni, fisiche, sociali e culturali, con la scusante della “missione di pace, democrazia, ecc.”. In tal senso Rebecca, come il soldato Witt di La sottile linea rossa, rappresenta l’iracheno divenuto cattolico o protestante, a botta di missioni-militari; il mussulmano che mangia la carne di maiale, ingurgitandola con tanto di vino o wisky, e così via tutte le contraddizioni di cui si può vantare, a proposito di ogni tipo di missione targata Onu, Vaticano, EU, ecc.
Diversamente da queste missioni, Malick fa in modo che tra selvaggi e bianchi funzionino i cinque sensi: ci si annusi, ci si ascolti entrambi le pulsazioni del cuore, ci sia un confronto di sguardi, prima dell’incontro vero e proprio. Quanto faticano anche i due personaggi del film durante i loro incontri, riempiti semplicemente da carezze, sfioramenti e desiderio di legarsi l’un l’altro, con la necessaria consapevolezza della naturale libertà per entrambi, che li porta alla fine, ognuno alla ricerca di un proprio nuovo mondo. E il relativo superamento di esso.
Giancarlo Visitilli
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