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La dea

Regia di Satyajit Ray vedi scheda film

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La recensione su La dea

di Stefano L
8 stelle

Devi: Seeing and Believing | Current | The Criterion Collection

 

Quando è stato rilasciato nel paese di provenienza, “Devi” ha scatenato una miriade di proteste relative al suo orientamento filosofico anti-Hindu. Il lungometraggio, comunque, oltre a sostenere un avvertibile sentimento insofferente alla religiosità, era pure intriso di alcuni elementi allegorici inerenti al misticismo, al mistero della forza esercitata nell’universo dal genere femminile e, soprattutto, all’eterno conflitto tra progressismo e tradizionalismo. Le polemiche erano inoltre aggravate dal background familiare di Satyajit Ray, il quale affondava le radici nel culto del brahmanesimo (seppur Ray abbia confessato d’aver sempre mantenuto un atteggiamento agnostico), movimento riformista bengalese che eliminava tutti gli aspetti più arcaici e scaramantici. Lo script era costruito su un evento, presumibilmente attendibile, in cui una fanciulla aveva assimilato le attitudini prodigiose di una divinità; da questo avvenimento Prabhat Kumar Mukherji ne scrisse un racconto rielaborato, in parte, da Ray: nella pellicola l'avvenente Rabindranath Tagore è Daya, una giovane che convive serenamente col marito Umaprasad (il già persuasivo Soumitra Chatterjee) nella lussuosa tenuta del padre. Uma, però, sta raggiungendo Calcutta (deve avviarsi agli studi universitari). Dopo la partenza della consorte, la ragazza si occuperà dell’handicap al piede del genitore acquisito Kalikinkar Roy, nonché di accudire il piccolo Khoka. Kalikinkar è un grande devoto della Durga Kalì, l’essere trascendentale che rappresenta la distruzione del Male, e una notte, affascinato dal modo scrupoloso con cui si prestava alle cure, sogna il viso della nipote fondersi insieme alla statua della dea. Il bindi decorativo, in particolare, viene sovrapposto al terzo occhio dell’immagine del nume, e questo per l’uomo rappresenta il sentore di una visione sacra. Il patrigno, quindi, si sveglia crede che sia un avatar di Kalì: il mattino seguente ordina al personale di isolare Daya e venerarla come una santa. Lei è terrorizzata e va in trance ma in poco tempo si immedesima in quella sagoma spirituale che le è stata attribuita, curando, attraverso i suoi poteri magici, il pargolo malato di un contadino. La sorellastra invidiosa (Karuna Bannerjee), intanto, avvisa prontamente il partner affinché torni dalla moglie e cerchi di ristabilire l’equilibrio mentale di Kalikinkar... La prassi filmica di “Devi”, nelle sequenze splendidamente sui generis e nello sviluppo dei vari segmenti del plot, nonostante non raggiunga la stessa profondità e la meravigliosa parvenza simbolica del lirismo assodato nella “trilogia di Apu”, dà ancora una volta prova dell’abilità del regista nella raffigurazione caustica e lancinante di una poetica viscerale basata su sottili movenze della mdp, retroilluminazioni sovraesposte dall'iconografia "spettrale" e un’azzimata, inebriante computazione dei suoni ambientali; una messa in scena depurata ed elegante, sorretta da maschere encomiabili, è capace di evocare un’ambiguità tagliente, congiunta ai contenuti teologici legati al dogma dello Shakti (l’agente ultraterreno deputato al mutamento dei fenomeni naturali). L’eccellente risultato di questo lavoro non può che portare a sperare che la Criterion ne stampi presto una release decente in home video, rendendo finalmente “Devi” parimenti reperibile anche in Occidente.

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