Regia di Satyajit Ray vedi scheda film
Un film sull’India in bilico tra tradizione e modernità, in cui la configurazione dei personaggi è analoga a quella de “La grande città”: Doya è una donna concreta e dedita alle questioni pratiche della famiglia, suo marito è un giovane intraprendente che sogna un futuro alla maniera occidentale, e suo suocero un sacerdote rigidamente ed enfaticamente attaccato ai principi di casta e agli antichi canoni indù. I due uomini amano Doya in maniera contrapposta: se il primo prova per lei un profondo affetto umano, il secondo la venera religiosamente come icona della maternità, fino al punto di sancire, ufficialmente, che ella è l’incarnazione della dea Kalì. L’adorazione, portata a questi eccessi, finisce per confinarla in un ruolo strumentale ed astratto, che la priva della sua individualità, assoggettandola crudelmente alle aspettative dei disperati che accorrono da lei in cerca di una grazia.
Lo scenario è scarno, ed i personaggi hanno la pregnanza iconica delle decoratissime maschere delle divinità indù, sia pur splendidamente sfumata dal passaggio delle emozioni. In questo film la filosofia si fa arte, il classico tormento dell’uomo di fronte al divino diviene un quadro fluttuante ed increspato, che accarezza lo sguardo, sfiorando delicatamente il cuore. Non un’ombra offusca la nitidezza dei pensieri e la chiarezza delle situazioni, e la macchina da presa è condotta con una precisione impeccabile, con una mano ferma e decisa, che pure mai tradisce la naturalezza, e mai si impone con invadenza. Una regia che vanta l’equilibrio di un acrobata, e si esibisce senza virtuosismi, percorrendo il filo della storia fluidamente, con una linearità che toglie il fiato. Cinque stelle fulgidissime.
Un esempio estremo di come il divino, irrompendo nell’esistenza, possa privarla di ogni umanità e ragionevolezza.
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