Regia di Claude Sautet vedi scheda film
Capita spesso che nella filmografia di un cineasta,come di un attore,abbia massima risonanza,e quindi popolarità anche internazionalmente,il titolo che ne contiene i difetti che in altri meno celebri(e celebrati) sono meno evidenti o del tutto assenti,si pensi Cèsar e Rosalie piuttosto che Il commissario Pelissier,il notevole Asfalto che scotta come Nelly e Monsieur Arnaud;o che,forse è più giusto dire così,non ne contengono gli aspetti migliori.
Ed è il caso di dirlo per L’amante(titolo italiano laconicamente sciocco al posto di “Les choses de la vie”,che è della semplicità tipica di Sautet),che appartiene al suo regista per ¾ ma non completamente.
Nella prima mezz’ora,in quei ricordi e nei dialoghi apparentemente fatti di niente e che in realtà rincorrono le frasi pronunciate per denudarsi e ricoprirsi immediatamente che hanno sempre avuto in Sautet il loro trascrittore ideale,ritroviamo i tempi di cui hanno bisogni i sentimenti per affermarsi e che non sono dilatati ma aspettano lo stato d’animo giusto,e promettono quella fedeltà alla gioia comunque vadano le cose;a mano a mano che il film procede,si sente il cauto distacco del regista dalla vicenda narrata,a motivo del quale è probabile incida l’origine letteraria che un po’ pregiudica la propensione del regista a creare un tenero universo privato fatto di amicizia,di amore preveggente senza languori e senza illusione,della pratica quotidiana del lasciar vivere i sentimenti all’interno delle passioni che accordano inaspettatamente le loro pretese a situazioni normali,quiete,di tangibile armonia.
Anche il tema della morte,che non è un elemento nuovo per Sautet,invece che entrare nel tessuto della trama con situazioni che l’annunciano o la sottintendono,qui è una presenza costante,una realtà già attuata dalla quale parte il percorso a ritroso dei ricordi di Michel Piccoli,che fa emergere dal calderone della memorie anche quello che forse non è successo davvero,o non ancora.
Meno sicura che altrove è anche la parte rivestita dai dialoghi,da sempre uno dei punti di forza del regista,ridotti a frasi smozzicate o,come nel caso del dialogo in auto tra Romy Schneider e Piccoli,costruiti con un inaspettato,risaputo terminologia di retorica melensa.
Tutto il cinema di Sautet è romantico,ma non è mai marcio di romanticherie,pericolo che in questo film viene costantemente costeggiato.
Anche l’innegabile efficacia della reiterata dinamica dell’incidente è costruita con ammiccamento che,nel rendere visive le scorie di un romanzo d’appendice che rimandano più al compiacimento estetico di Lelouch che di Sautet,un po’ rinnega la scabra eleganza,il rifiuto dell’elemento decorativo che serviva ammirevolmente le intonazioni dei personaggi;come pure risulta poco efficace il monologo di Piccoli mentre sta per congedarsi dalla vita,qua e là petulante e accompagnato da immagini ricche forse di fantasia,ma un po’ slegate dal contesto,riempitive di uno spazio lasciato vuoto:questo perché Sautet non è un regista declamatorio né un affabulatore,un maestro di cerimonie oniriche,non è Fellini, ma un compagno d’avventure,l’autore del romanzo cinematografico che riporta le storie altrui senza invenzioni aggiuntive,convinto che l’invisibile mano che conduce la cinepresa sullo scenario offerto dai volti(degli attori,delle comparse anche)valga di più nel momento in cui si sottrae a ciò che non concreto,vissuto.
Con gli attori che ha a disposizione e con il tocco che si rintraccia in alcuni momenti è un peccato,perché quello che in altro mani sarebbe potuto diventare un uomo qualunque indeciso,infantile(e non è detto che non lo sia,ma in questo caso importa meno) qui è un borghese educato a non lasciarsi travolgere dal gusto del nuovo ma si sofferma su ciò che è stato,e potrebbe essere ancora,bello,che ritorna negli interni borghesi per raccogliere i motivi di una fedeltà mai completamente esaurita,le impronte digitale delle emozioni dimenticate durante le ore dell’amore e mai recuperate dalle abitudinarie esigenze della famiglia,ma che dalla famiglia non si distacca mai veramente,forse perché quelle esitazioni sono il germe di un altro ideale di famiglia,di un diverso progetto che non farà in tempo a realizzare.
I quasi quarant’anni che pesano sulle spalle del best seller di Sautet si sentono come un’usura insospettabile nella sua filmografia perché,caso assai raro,non coglie lo spirito del tempo ma è come se facesse indossare abiti moderni a personaggi che si muovono in una parzialità emotiva d’altri tempi,dove i dolori erano ovattati,dove le convenzioni era tanto più importanti quanto più erano taciute.
L’urto della realtà sociale che in Sautet è sempre stato presente senza che avvelenasse la quiete della sua esposizione dei fatti non si sente se non di striscio,in qualche inavvertibile rumore,ma resta impressa(almeno a me che scrivo)la struggente finezza delle ultime immagini in cui Catherine guarda dalle finestre dell’ospedale la corsa disperata di Hèlene e,in uno slancio di generosità tutto femminile,non le procura il dolore del contenuto dalla lettera che,comunque,non avrebbe detto la verità,come se Sautet,uno degli uomini che voleva amare le donne,avesse attribuito alla chiaroveggenza delle donne un gesto,il più nobile,che un uomo vorrebbe fosse sempre compiuto per ultimo.
Uno dei tanti esempi dell’immagine di amico che popolavano i film di Sautet,un volto proletario e cordiale,accanto al quale è giusto segnalare anche Jean Bouise nel ruolo del figlio.
Davvero troppo poco presente quest’attrice che ha scelto forse per insofferenza di allontanarsi dallo schermo,e che spesso si privava di ruoli corposi per privilegiare un’attività da comprimaria di lusso. La sua femminilità salvifica e la tenace,misurata autenticità muliebre sono quelle di una donna che affronta con carattere senza bellicosità e senza ossequio il suo referente maschile,svincolato da ogni stereotipo. Un’attrice poco compresa e che forse non ha fatto tutto ciò che poteva per farsi comprendere.
L’interprete attraverso la quale si confessa l’ammirazione di Sautet per le emozioni femminili,avvolta da una luce lunare,impaziente come chi assiste allo scioglimento dei propri ideali in una logica amara.
Un bellissimo uomo che discute con il suo personaggio senza esporsi pur essendo presente per tutto il film,che non priva il regista della paternità del suo film e a poco a poco fa in modo di accomodarvisi dentro.
E’ probabilmente l’unica volta,e per questo non è il caso di volergliene,in cui ha ascoltato meno le voci dei suoi personaggi,pur in una confezione ineccepibile,ma con qualche suono imprudente e con minor incisività. Resta un bel film incompleto,invecchiato bene ma invecchiato prima degli altri.
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