Regia di Godfrey Reggio vedi scheda film
Questo secondo capitolo della trilogia di Godfrey Reggio è un “gemello opposto” di “Koyaanisqatsi”: se il primo invitava a riflettere, con “Powaqqatsi” il regista ci invita semplicemente a guardare, a osservare (un) altro/i mondo/i.
Non c’è denuncia, ma solo contemplazione. Non c’è patetismo, ma piuttosto la ricerca di quello stupore che, in fin dei conti, è alla base dello spettacolo. La maestria e la sicurezza con le quali il cineasta ci trasporta in queste culture ancestrali è di una sublimità inarrivabile.
La colonna sonora di Philip Glass, poi, contribuisce a rendere la pellicola (i primi quaranta minuti in particolare) un unico flusso di emozione pura, talmente intensa e profonda da superare sovente il primo capitolo in quanto a impatto emotivo. Questa – a mio parere – è in assoluto la migliore della trilogia, in quanto racchiude l’essenza completa della poetica del compositore. Nel caso in questione poi, motivi inequivocabilmente propri del patrimonio sonoro degli anni ’80 sono mescolati con ingegno impareggiabile a suoni primigeni, mescolanza atta a comporre un tutto armonioso che non è un sottofondo alle immagini, bensì un vero e proprio prolungamento di esse.
Al duro impatto dei colori freddi propri di strade e grattacieli mostrati nel film del 1982 viene qui sostituito un caleidoscopio di culture e tradizioni ammalianti e affascinanti, magnificate ancor di più dal montaggio e dal frequentissimo uso del ralenti.
Un elogio alla dolcezza, un dizionario del Terzo Mondo, un viaggio umano prima che cinematografico che affrontiamo sì con la vista e con l’udito, ma che in realtà parla all’anima e da questa viene recepito.
Ho precedentemente lodato la pellicola facendo riferimento nello specifico ai primi quaranta minuti: questi sono infatti quasi interamente strutturati sulla traccia a tre riprese dell”Anthem”, il famoso pezzo che è di fatto il punto forte del film, nonché il suo tema portante (in seguito sarebbe stato tra l’altro utilizzato anche da Peter Weir in “The Truman Show”). Ciò conferisce maggiore forza emozionale alla prima parte rispetto al resto, ma si tratta di una “differenza” poco influente su un risultato comunque eccelso.
A livello puramente osservativo, si nota nella seconda parte una sorta di cambio di registro, dove il carattere urbano prevale su quello rurale, la città prende il sopravvento sulla natura e copiose immagini riguardanti telegiornali e spot pubblicitari bruciano davanti ai nostri occhi, come condannate a una meritata (secondo l’ottica di chi ha realizzato il film) distruzione.
Altro carattere distintivo di quest’opera sono i frequentissimi primi piani sui volti, dai cui sguardi scaturisce quell’essenzialità di spirito, quel carattere docile e remissivo di chi non ha mai conosciuto il progresso.
Una leggera caduta di ritmo verso la fine non toglie a questa pellicola la dicotomia di “capolavoro”, nonostante il primo film fosse, per l’epoca, innegabilmente più innovativo.
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