Regia di Yves Allégret vedi scheda film
Messico, inizio degli anni ’50. In un paesello sperduto dalle parti di Vera Cruz, una turista francese perde il marito colpito da una meningite folgorante. Il cadavere infetto non può essere rimpatriato, va immediatamente sepolto e la donna resta bloccata sul posto. Mentre assiste impotente all’espandersi dell’epidemia e patisce ogni genere di difficoltà nell’adattarsi ad un ambiente per lei eccessivamente esotico, incontra un giovane compatriota, un ex-medico, un vedovo trasandato e decisamente alcoolizzato, ma in definitiva profondamente umano. Ovviamente, i due finiranno con l’innamorarsi.
A dispetto di una trama che ho riassunto solo per grandi linee, ritengo che sia un film da (ri)scoprire per più di un motivo. Yves Allégret, regista non indimenticabile ma qui al meglio delle sue capacità, si affida ad un’ottima ambientazione, ad una splendida fotografia in bianco e nero e ad una coppia d’interpreti a prova di bomba anche in presenza di una sceneggiatura semplice e troppo scontata nel finale. Il Messico profondo anni ’50 è rappresentato in maniera quasi documentaristica. L’azione si svolge in coincidenza con il venerdì santo. Botti come se fosse capodanno a Napoli, musica ossessiva, bambini che giocano gridando, uomini che urlano, ridono sguaiatamente e s’imbevono di tequila. Il caldo è onnipresente, ventilatori in ogni angolo, sudore sul volto e sugli abiti di tutti i personaggi. Si respira aria del contemporaneo periodo messicano di Luis Bunuel. Stando al sito wikipedia, il maestro spagnolo fu presente durante le riprese del film. Al centro della vicenda vi sono due protagonisti interpretati da Michèle Morgan e Gérard Philipe, entrambi impegnati in ruoli inusuali nelle rispettive carriere. La prima compone un personaggio d’intensa drammaticità e straordinaria sensualità. Non si stenta a credere che, in piena adolescenza, Martin Scorsese ne fu abbagliato, come ebbe a dichiarare lo stesso regista italo-americano. Michèle Morgan non mostra molto del proprio corpo, attenendosi alle regole pudiche dell’epoca, ma ogni suo gesto è straboccante di erotismo, come mai le era accaduto in precedenza. Mi ha ricordato addirittura la performance di Silvana Mangano in “Riso amaro” (1948) di Giuseppe De Santis. Dal canto suo, Gérard Philipe incarna un personaggio non meno difficile. Per oltre la metà del film è completamente ubriaco e il rischio di strafare era dietro l’angolo. Riesce invece a tenere il timone, pur barcollando in continuazione. Lo spettatore, in un primo momento disorientato, finisce con l’accettarne la condizione e si lascia trascinare, proprio come la donna che sta per cadergli tra le braccia.
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