Regia di Jeff Wadlow vedi scheda film
Il sapore slasher è solo un retrogusto, e nemmeno tanto dolce. Ci sarebbe piaciuto uno sviluppo diverso per un teen-horror che strizza l’occhio dichiaratamente a “Scream”, non solo per l’uso del telefono ma anche per il gioco di specchi e bugie palesi ma sempre creatrici di dubbi e maschere, che però non ha Wes Craven alla regia. Questo purtroppo deraglia sia i personaggi che la storia verso la patetica rappresentazione di sé stessi. Il film è divertente, perché riesce a giocare con lo spettatore e ha soprattutto gli elementi giusti per piacere: l’ambiente scolastico che rimane sempre uno dei luoghi più frequentati dall’horror grazie alla sua minaccia eversiva che l’horror appunto tende a minacciare e sovvertire; il gruppo di giovani, belli, carini e non, eterogenei e stereotipati per dare una visione abbastanza completa del panorama “teen” del momento, anche se il motivo principale è sempre quello di permettere a più spettatori di riconoscersi in uno dei personaggi, obiettivo patetico che prima sparisce e meglio è; la leggenda metropolitana o comunque un fatto di sangue efferato, forte e disturbante che non solo scatena le fantasie dei ragazzi come da che mondo è mondo, ma che sa anche innescare un gioco di paure, di accuse e di sfiducie reciproche che portano la storia nella direzione autodistruttiva del genere, palesissima in “Cry Wolf”; la maschera del terribile assassino, di tendenza, cool, ma comunque pittoresca che sappia avere una presa precisa sull’immaginario collettivo, altrimenti chi li supera i quattro moschettieri, Leatherface, Michael, Jason e Freddy?; la festa di Halloween, da sempre sinonimo di orrore sia perché il tema lo permette sia perché le inibizioni tipiche delle feste “carnali” pagane ne sono un incentivo, e sia perché le maschere, i travestimenti, i giochi di specchi e di ruolo sono un motivo interessante da sviluppare all’interno di uno slasher. Manca in tutti questi il più fondamentale e il più determinante: il body-count. Non solo manca narrativamente, ma anche esteticamente. Non ci sono delitti, se non in una prima immaginazione, e non c’è una certa attenzione alla coreografia del delitto, niente abuso di sangue o di violenza. E qui “Cry Wolf”, volgarmente ribatezzato dai distributori italiani “Nickname:Enigmista”, perde un sacco di punti e nonostante butti lì una piccola riflessione metanarrativa su come creare un killer spietato, gioco che fanno tutti gli sceneggiatori per inventarsi i vari Michael Myers e soci, non ha il carisma giusto per raggiungere le pellicole regine del genere. Questo carisma gli manca anche perché il film è mutilato del body-count. Da notare come anche i pruriti sessuali, altra componente tipica dello slasher, siano solo degli schizzi gettati su una tela senza un minimo di valore narrativo né contenutistico: lui che vuole una lei con le, si dice, sexy calze sopra al ginocchio; due lesbiche che amoreggiano proprio nel momento di un tentato omicidio, e basta. Appunto. Non basta la relazione della protagonista con il professor Jon Bon Jovi per suscitare un minimo di libido, e senza una precisa cura dell’elemento perturbante sessuale, un horror non riesce a decollare veramente. “Cry Wolf” rimane divertente e carino soprattutto per il finale, nonostante sia una scelta che deraglia irreversibilmente il film dalla categoria slasher. Per questo alla fine ci sarebbe piaciuto uno sviluppo diverso per un film che finge di essere slasher.
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