Regia di Terrence Malick vedi scheda film
Il film di Malick che si eleva sopra il suo recente ciarpame poetico documentaristico cade nell'anno di grazia 1976, ma esce poi nel 1978 a seguito di due laboriosi anni di montaggio che serviranno a dargli una forma concreta e narrativamente coerente dato che durante le riprese gettò letteralmente al vento lo script concedendo carta bianca ai suoi attori, incaricati di animare la storia attraverso le azioni dei loro personaggi condannati dal destino.
In realtà le colonne portanti de "I giorni del cielo" sono proprio Malick con la sua regia classica e moderna dalla quale scaturiscono immagini stupende colorate dalla luce da Oscar di uno strepitoso Nestor Almendros, e la musica nata dalla vena ispiratissima di Morricone, solo candidato ma meritevole del premio.
Già nei titoli di testa l'ipnotico incedere dai toni altissimi al piano su un tappeto corale steso sulle foto in bianco e nero dei primi del novecento ci conduce come in una macchina del tempo che si ferma in prossimità degli anni venti, dove la storia comincia in una acciaieria di Chicago e poi subito ci porta sulla ferrovia, seguendo il trio di protagonisti nel loro percorso: Richard Gere nel ruolo di Bill, un irrequieto ragazzo di strada legato ad Abby la giovane ribelle con il volto della bella Brooke Adams ed alla sorellina Linda che detta i tempi del racconto con la sua voce off.
Le opprimenti mura della fabbrica vengono presto cancellate dal cielo che si staglia dietro quel treno in transito sopra un ponte lontano: con una semplice inquadratura fissa Malick sprigiona subito tutto il suo talento cominciando a filmare il protagonista citato nel titolo, quel cielo spesso incombente sui personaggi illuminato magicamente da Almendros nelle ore in cui assume i suoi colori più sgargianti, come l’arancio del tramonto con il sole appena sceso sotto l’orizzonte, o il grigio ambrato che filtra dalle nuvole nelle prime luci dell’alba.
Bill e le sue compagne di viaggio giungono in una isolata fattoria del Midwest: al centro della terra si staglia l’abitazione del giovane proprietario circondata dal grano e sovrastata dal cielo, oltre ad essa solo l’ingresso in mezzo ad un mare di spighe.
L’immagine con la sua spontanea naturalezza riporta a “Il Gigante” di Stevens, ma il taglio non è da colossal hollywoodiano bensì da documento storico romanzato.
Su questo punto poggia tutta la forza del miglior film di Malick, su diapositive in movimento ricostruite ad arte con costumi oggetti ed abitudini di quel periodo lontano, su di esse si sviluppa una storia di amori tragici, un intreccio di sentimenti nascosti e verità non rivelate fra Bill ed Abby, che si spacciano per fratello e sorella, ed il giovane e malato proprietario della fattoria, interpretato da un carismatico e affascinante Sam Shepard che fa a gara di bellezza con Gere per la gioia delle signorine, mentre io mi accontento di ammirare la Adams con le sue labbra incurvate verso il basso che nascondono un sorriso che colpisce.
Lo strano ménage è condotto da Bill: è proprio lui a suggerire ad Abby di giocare d’azzardo con i sentimenti del padrone nell’ottica di sovvertire a loro favore una ricchezza che sembra a portata di mano, ma è la forza dell’amore con la sua incontrollabile imprevedibilità a scatenare la rabbia, il rancore, la violenza.
Il trio di attori coinvolti si mette in luce più con le movenze e gli sguardi che con il copione, che come detto sembra poco più di un accessorio: stupenda in tal senso la sequenza delle ombre cinesi che mette in cattiva luce l’onestà di Abby e getta ombre sulla figura di Bill agli occhi del padrone.
Malick vuole evitare assolutamente che il film venga soffocato dai personaggi, per questo li tiene sotto controllo fino alla fine facendo la voce grossa ad ogni stacco, sprigionando delle intuizioni di regia che lo rendono a mio modesto parere uno dei talenti più grandi degli ultimi trent’anni: sceglie dei primi piani particolarissimi, inclinando leggermente la m.d.p. posizionata appena al di sotto delle spalle dei due personaggi maschili, così che il cielo li sovrasti come una incombenza sulle loro teste, si aggira come un fantasma con la sua camera in spalla immerso nella natura incontaminata dove si muovono liberamente Gere e la Adams in una delle molte sequenze priva di copione, fa una scelta cromatica affascinante depurando gli abiti e gli oggetti di qualsiasi colore moderno come l’azzurro puro e si tiene costantemente su toni opachi e le tinte della natura tranne che per i biplani degli acrobati dell’aria che squarciano il cielo e la monotonia nella fattoria.
Da’ libero sfogo al suo piglio di documentarista mostrando la crescita rapida del grano nel sottosuolo, senza lambiccarsi sull’estetica nuda e cruda realizza la lunga sequenza dell’invasione delle locuste che sfocia nell’incendio notturno con la pellicola illuminata dal fuoco, altra sequenza di rara bellezza con tanta camera a mano che ci da’ l’impressione di essere circondati dal rogo.
Al di là di ogni giudizio è indiscutibile che Malick abbia trovato il perfetto equilibrio fra il taglio documentaristico a lui così congeniale con cui descrive la vita rurale dei primi del novecento ed il dramma classico alla Tennessee Williams intrecciandoli senza forzature; conclude poi il suo film con le cadenze del precedente lavoro d’esordio senza mai spettacolarizzare l’azione e mantenendo sempre un tono placido come la natura incontaminata, si concede un ultimo vezzo stilistico ponendo la telecamera sott’acqua per riprendere la caduta di Bill.
L’equilibrio è il valore che secondo me eleva questo film sopra le altre imprese di Malick: “Badlands” gli si avvicina molto ma non ha sugli scudi Almendros e Morricone, come detto eccelsi in quest’opera; “La sottile linea rossa” ha una storia robusta raccontata con poco ritmo e troppo Ungaretti e per questo me lo cago poco; “The new world” è il film di Malick da cui mi aspettavo tanto, come messa in scena e regia è al pari de “I giorni del cielo” e lo stile di Malick è inconfondibile, ma si affloscia come un salvagente bucato di minuto in minuto e non entusiasma di certo con quella scamorza irlandese di Colin Farrell per protagonista; “The tree of life” è merda pura, spazzatura che racconta la natura e vita che si avvita su immagini bellissime come sempre ma disgiunte più che mai; “To the wonder” non l’ho visto e mi terrorizza solo scriverlo per come me lo hanno descritto, per cui il signor Terence Malick ha già dato il meglio di se' nel lontano 1978 e credo mai più si ripeterà vista la veneranda età e la demenza senile che lo attanaglia, rivedo sempre con piacere QUESTO suo film e “Badlands”, ma non ho intenzione di rimettere gli occhi sul resto.
Stile e talento smisurati che andranno sprecati come lacrime nella pioggia nei suoi successivi lavori, non c'è regia geniale come la sua, ma purtroppo Malick crede di poter narrare con la telepatia a suon di sonetti, per fortuna "I giorni del cielo" possiede una linearità narrativa preziosissima essenziale e meravigliosa che lo rende a mio giudizio un capolavoro unico nella storia del cinema ma purtroppo anche della filmografia di Malick. Un vero peccato.
Il primo vero ruolo importante della sua carriera risolto ammirevolmente senza strafare come richiesto da Malick, era molto giovane e indubbiamente di bell'aspetto.
Bella Brooke Adams, amo molto i pochi film nei quali ha recitato. Un viso molto particolare per un ruolo vulnerabile e succube di Bill ma innegabilmente negativo.
Non una grande attrice ma in parte e Malick non voleva una personalità che ammazzasse il film.
Affascinante e davvero in parte, cela la rabbia e il dolore del suo personaggio con grande naturalezza.
Un viso d'altri tempi e la storia è nei suoi occhi.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta