Regia di Elio Petri vedi scheda film
Rielaborando in modo assolutamente originale la lezione del Neorealismo e quella della Nouvelle Vague, Petri, alla sua seconda fatica di regista, già dimostra di essere Petri. Non si tratta di una tautologia, ma di un unicum nel panorama cinematografico contemporaneo. Non c'è etichettatura che regga. Voto: 10 solo perché non si può contare oltre.
Dopo aver visto morire d'infarto un uomo della sua stessa età, Cesare, stagnaro cinquantatreenne, decide di di trascorrere il tempo che gli resta da vivere senza lavorare. In diem vivere: questa sembra diventare la sua filosofia di vita, sfaccendarsi e perdersi nel quotidiano senza proiettare la propria esistenza nel domani, perché per Cesare, ossessionato dalla sua morte imminente, il domani non esiste. "Domani sarò morto": potrebbe essere questa la sintesi dei pensieri che assillano costantemente il protagonista che sente di avere I giorni contati. Ma in realtà, pur scegliendo di vivere la giornata allo sbando, preferendo la nullafacenza ai meccanismi logoranti della catena di montaggio, Cesare rimane completamente imbrigliato nella rete del disagio esistenziale. La liberazione dal lavoro non restituisce la libertà agognata, i soldi inizieranno a scarseggiare, il lavoro prima o poi richiamerà all'ordine e Cesare dovrà rispondere tornando a sturare cessi e lavandini. Da una parte c'è lo spettro dell'alienazione del lavoro, cui Cesare tenta di opporsi perché non vuol vivere per lavorare, né morire lavorando; dall'altra c'è lo spettro più subdolo dell'alienazione dell'inoccupato che, varcate le soglie della mezza età, non sa più come recuperare il tempo perduto e quindi si perde tra un vagabondaggio e l'altro nel labirinto urbano senza uno scopo preciso. Nella civiltà del capitale non può esistere alcun affrancamento dal lavoro. La logica di questo sistema si fonda su tale assunto: sii produttore, sii produttivo, e in cambio ti verrà concessa la libertà del consumatore. Produci, consuma, Produci, consuma, Produci, consuma... crepa. Se, come Cesare, si tenta di sconfinare oltre questa logica perversa, la libertà è una sola: la libertà di morire di fame.
Pur avendo dismesso i panni del lavoratore, pur potendo fare ogni giorno "quello che gli pare e piace", in realtà il nostro stagnaro resta come sospeso in un limbo, intravede solo vicoli ciechi nel suo viaggio esistenziale. Il binomio lavoro-morte continua a perseguitarlo, torna di continuo alla mente come un contenuto psichico inestirpabile, una monomania che non conosce cura. È esemplare ciò che accade durante uno dei tanti passatempi che il protagonista si concede per ammazzare il tempo e non finire ammazzato dal lavoro.
Aggirandosi per la Galleria Borghese, Cesare scopre l'arte, probabilmente non ha mai visitato un museo prima d'ora. Incontra nel frattempo una sorta di mecenate di neoavanguardie con cui fa conversazione:
Cesare: "Vede professore, se uno come me si accorge solo oggi di certe cose, gli dicono che è troppo tardi, e questo è ingiusto, non le pare? O perlomeno è triste, no?".
[...]
Il professore: "Vede, il suo è un problema squisitamente moderno. Lei, senza neanche saperlo, è un esistenzialista".
Cesare: "Eh?".
Per quanto dotato di una sensibilità disarmante, di una non comune e lucidissima capacità di vedere la vita in tutta la sua crudezza, Cesare non coglie il messaggio intellettuale del suo interlocutore. Prendendo a prestito le parole di Bruno Cortona (un monumentale Vittorio Gassman nel coevo Il sorpasso), in questo breve scambio di battute "c'è tutto: la solitudine, l'incomunicabilità, poi quell'altra cosa, quella che va di moda oggi... la... l'alienazione".
Ma poi il professore non approfondisce più di tanto, non dà mica a Cesare Essere e nulla di Sartre (anche perché Cesare non saprebbe che farsene), né lo aiuta a raggiungere un livello superiore di consapevolezza (leggasi coscienza di classe). Lo porta in un bagno, e gli chiede di aggiustare un lavandino intasato. Questo è il destino di Cesare, a cui tornerà sommessamente smettendo di contare i giorni e forse smettendo anche di vivere.
La cinepresa che Petri punta sul grandissimo Salvo Randone, seguendolo godardianamente nelle sue peregrinazioni solitarie, assume la forma di un pedinamento. E anche noi (gli spettatori) pediniamo questo povero disadattato di mezza età, già vecchio e consunto nel volto rugoso, che vaga per la Babele cittadina come un cane randagio che cerca disperatamente un po' di vitalità. Il cane sarà infine costretto a tornare dal suo padrone, rimettendosi da sè il guinzaglio. La vita non è vita, putroppo, senza la schiavitù del lavoro; non si può che contare i giorni che restano da vivere e nulla più. Così Cesare viene risucchiato dall'alienazione lavorativa. Pare non ci sia altra risposta alla domanda di felicità nel mondo contemporaneo.
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