Regia di Mark Mylod vedi scheda film
Il biancore ragellante dell’Alaska, insieme all’avidità umana, spintasi fino al fatricidio, sono i protagonisti di questo film, del regista Mark Mylod, al suo secondo lungometraggio, dopo Ali G (2002). The Big White richiama molti film, sebbene il confronto con questi non ha paragoni: dall’ambientazione artica di Fargo, alla crudezza del bellissimo Soldi sporchi di Sam Raimi, compreso il richiamo all’immagine della tartaruga gigante, Gamera, dei monster-movies giapponesi, che s’intravede sulla rivista sorretta da Margaret, evidente omaggio al cinema di genere.
In un non-luogo innevato e candido, destinato ad essere macchiato di sangue, l’agente di viaggio, Paul Barnell, è in balia dei creditori e non ha più i soldi per curare sua moglie Margaret, affetta dalla sindrome di Tourette, che la rende sboccata e volgare. Decide allora di provvedervi facendo ricorso all’assicurazione sulla vita del fratello Raymond, scomparso ormai da alcuni anni e di cui non si hanno più notizie. Sarà il fanatico perito dell’assicurazione, Ted Waters, a stabilire che non è ancora trascorso abbastanza tempo per decretare la morte di Raymond e quindi a negare a Paul di beneficiare del premio assicurativo. La fortuna sembra spalancare le porte dello sventurato agente di viaggio quando questi s’imbatte in un cadavere congelato che potrebbe spacciare per suo fratello, sebbene egli non è il solo ad avere delle mire su quel corpo, visto che sulle sue tracce si sono messi anche due spietati killers.
Sembra che l’unico motivo ispiratore del film sia l’intramontabile “Cosa non si fa per amore e per denaro!”, a non smentirlo basta capire l’unica passione che nutrono i due killer, quella per l’idromassaggio. E cos’altro aggiungere, poi, a proposito del cowboy kitch, con tanto d’incisivo d’oro? Basta poco per addentrarsi nel mondo, aridamente accaldato da sentimenti contrari, che racconta Mylod, attraverso questa commediola cattiva ma buona, che vorrebbe far sorridere, ma che intristisce per il racconto in sé.
Anche il personaggio di Paul, sebbene interpretato in modo solerte ma poco incisivo da Robin Williams, desta impassibilità, allo stesso modo della coppia Ted/Tiffany, interpretata dai pur bravi Giovanni Ribisi e Alison Lohman. Differente, invece, l’irriverente Holly Hunter, per la sua prontezza a travolgere chiunque le capiti sotto tiro con un fiume di parolacce o, nel caso di rapitori, con oggetti d’ogni sorta.
L’eccessiva leggerezza dell’intreccio, che accumula situazioni paradossali e colpi di scena surreali, riesce a far emergere solo la parte peggiore degli esseri umani, qui ridotti in grotteschi fantocci, per giunta in balìa di una tragicomica reazione di cause ed effetti, senza fine e senza senso. Tra cadaveri rubati, mogli disturbate, truffatrici esoteriche e gay-killer, Mylod perde la strada del racconto, conducendo lo spettatore in un finale cialtronesco e sentimentale, senza vergogna e senza moralismi.
Alla fine, d’interessante rimane una battuta, che da sola vale come commento al film: “E’ incredibile, i peggiori sono quelli per bene”. Ma il cinema, il più delle volte, non è per le “persone per bene”, almeno non inteso alla maniera di Mark Mylod.
Giancarlo Visitilli
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