Regia di Curtis Hanson vedi scheda film
Dopo un film tutto al maschile, dal linguaggio crudo ed esplicito come “8 mile”, Curtis Hanson, a rivelare un sorprendente ma a conti fatti sterile eclettismo, si tuffa nella commedia al femminile, con l’intenzione dichiarata di omaggiare un genere glorioso della Hollywood classica. Purtroppo Hanson, decisamente più a suo agio con il thriller al femminile (come dimenticare l’ancora efficace “La mano sulla culla”?) non è George Cukor e il risultato è fiacco, edulcorato e deludente. Tratto dal romanzo di Jennifer Weiner e sceneggiato dalla molto sopravvalutata Susannah Grant, una che fino ad ora ha azzeccato solo il copione di “Erin Brockovich” (il cui valore peraltro è fondamentalmente legato alla superba interpretazione di Julia Roberts), “In her shoes” è prevedibile e monotono dalla prima all’ultima inquadratura, leggero quasi fino all’inconsistenza, al pari degli ultimi impalpabili lavori di Garry Marshall. Con un copione del genere ci sarebbe voluto il dimenticato e spesso formidabile Herbert Ross. Hanson eccede in melassa (le poesie di Elizabeth Bishop e E.E. Cummings a fare da cornice), non sa asciugare minimamente un intreccio prolisso, ripetitivo e ridondante, penalizzato da personaggi superflui (grave una controparte maschile così loffia) e parentesi inutili, si trastulla in ovvietà da soap opera (Maggie a letto con il capo di Rose puntualmente scoperta, i tira e molla estenuanti tra Rose e Simon) o situazioni da sit-com avariata, si affida a espedienti comici triti (il coro delle vecchiette arzille e scafate, Maggie in piscina a turbare i sonni degli attempati frequentatori della “comunità residenziale per anziani attivi”). Il coinvolgimento emotivo è scolastico, si tende a rimarcare l’ovvio tanto nell’analisi superficiale e semplicistica del rapporto tra due sorelle così differenti (“una coppia come Sonny & Cher” dirà poi ironicamente Maggie) quanto nel ritratto di una disfunzionale famiglia americana tra non detti ed incomprensioni, la messa in scena non ha guizzi, la storia si ingarbuglia in patetiche svolte melodrammatiche con il troppo esplicito obiettivo, tra un sorriso e l’altro già strappati a forza, di suscitare anche facili lacrime, ma senza mai raggiungere momenti di autentica sensibilità e sincera commozione. Resta un fastidioso senso di artificioso, come una favola fuori tempo massimo in cui tutti i conflitti trovano un naturale appianamento e i rapporti contrastanti si risolvono in un fasullo vissero felici e contenti, dimenticando di botto torti, sensi di colpa, silenzi e inganni, commessi e subiti. Le due sorelle sono brav(in)e (meglio la Collette che peraltro si ricicla in un ruolo che le era riuscito con più grazia in “Le nozze di Muriel” della Diaz che rifà sempre se stessa a costo inflazione) ma la divina Shirley MacLaine (nomination ai Golden Globes come non protagonista, battuta dalla Rachel Weisz di “The constant gardener”) ruba loro la scena con disinvolta, sorniona e quasi imbarazzante semplicità. Un solo suo sguardo (si veda la sequenza in cui il suo corteggiatore, sulla porta di casa, la sorprende con un improvviso bacio sulla guancia) vale molto di più delle smorfiette, isterismi ed ammiccamenti delle due attrici protagoniste. Prodotto dai fratelli Tony e Ridley Scott. Voto: 5
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