Regia di Paul Haggis vedi scheda film
Il corpo e l’anima, la vita e la morte, l’incontro e lo scontro. Tutto questo è Crash, una sorta di girandola di personaggi di cui è possibile tracciare, per ognuno, il proprio percorso, senza mai perdersi, anzi, di cui diventa facile stabilire un inizio e una fine.
Questa non-storia di ognuno (a causa della mancanza di un vero e proprio personaggio) è ambientata nella “città degli angeli”, Los Angeles, gelida e desolata, a pochi giorni prima di Natale. Una ricca casalinga e il marito procuratore, un iraniano proprietario di un negozio e la sua famiglia, due poliziotti-amanti, il direttore nero di un canale tv e la moglie, un fabbro latinoamericano, due ladri di automobili, una recluta della polizia, un poliziotto con il padre malato, una coppia coreana, ecc. Tutti personaggi, le cui vite, in modi differenti, verranno a scontrarsi letteralmente: mai come in questo caso lo scontro è fisico.
Tutto sembra essere stato predetto e guidato dal dio Caso, lo stesso che farà in modo che ogni vita s’introduca in quella di un altro, assemblandosi nel sentimento del mal di vivere. Una sorta di corsa verso quel cammino sordo e solitario che può apparire, il più delle volte, la vita, in cui ci si accorge degli altri solo nel momento dell’urto.
Il debutto come regista di Paul Haggis (candidato all’Oscar per Million Dollar Baby e sceneggiatore del prossimo film dello stesso Clint Eastwood, Flags of our Fathers), conosciuto come un grande sceneggiatore, è degno di nota, non fosse altro che per la motivazione abbastanza curiosa, che lo ha condotto a questo film: due uomini armati che gli hanno derubato l’auto. I suoi personaggi, nel film, si amplificano nella loro stessa caratterizzazione proprio attraverso l’incontro e lo scontro quotidiano, abitato da conflitti razziali, da pregiudizi e dalla tentazione dell’evitamento dell’altro. E questo non è solo causa dei postumi dell’11 settembre, ma è da sempre nel dna di ogni popolo. Tanto che, alimentato dall’ipocrisia e dai falsi moralismi, genera una società impazzita, irraggiungibile, che ormai non lascia più spazio all’incontro, ma genera solo scontri, guerre e ritrosie.
Inevitabile il confronto con altri film come America oggi (Altman), Magnolia (Anderson), anche se il finale di questi ultimi è assolutamente più reale e più marcatamente decadentista, a differenza di quello di Crash, in cui tutto, alla fine, non è altro che un ricongiungere, riordinare i pezzi, come in un puzzle. Se è evidente che l’intenzione dell’autore era quella di parlare di intolleranza, paura, fobie, ecc., è vero anche che si cade molto nell’errore di non dire nulla che non sia già stato detto, e quindi tutto è abbastanza stereotipato, dall’insistenza dei rallenty durante le scene maggiormente drammatiche, tra l’altro fortemente caricate emotivamente, mediante una superba colonna sonora (Marck Isham), che funziona, a tal proposito. Un grande merito è che il film è stato realizzato in 35 giorni e con appena 6 milioni di dollari, risparmiando su pellicola e location per pagare le comparse, anche se al box office Usa i primi incassi sono risultati dieci volte superiori. Anche la scelta del cast, molto furba e attenta alle mode del tempo, vede la partecipazione di star, accanto a quella di Don Cheadle (candidato all’Oscar per Hotel Rwanda), anche nelle vesti di coproduttore, insieme a Sandra Bullock, Matt Dillon, Brendan Fraser e Thandie Newton.
Peccato che alla fine di così tanto scontro non rimane che il desiderio (e quasi l’esigenza) che qualcosa di vero accada affinché ognuno inter-agisca, creando i presupposti di scontri che si desidera ricordare come l’occasione di incontro con l’altro, a cui quasi sempre si rifiuta la sola denuncia. Altro che lieto fine…
Giancarlo Visitilli
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