Regia di Radu Mihaileanu vedi scheda film
E’ vero, gli stilemi di questo film di Mihaileanu potrebbero essere riconducibili alle opere intrinseche di retorica e buoni sentimenti, ma il tema e il contesto svettano incontrastatamente su ogni altra considerazione garantendogli la meritata attenzione riservata alle opere elaborate e romanzate su basi saldamente storiografiche.
L’ ”Operazione Mosè “, della quale avevo una superficiale conoscenza precedente alla visione del film, sta alla base del dramma esistenziale del protagonista Schlomo e, com’ è mia abitudine, allegherò una sintesi sull’argomento affinché il lettore possa avere un’idea più dettagliata degli avvenimenti a integrazione delle brevi didascalie riportate all’inizio dell’opera. A differenza del solito, ho ritenuto opportuno in questo caso postporre tale sintesi in calce alla recensione per riservarla ai soli interessati, evitando in tal modo l’interruzione agli altri lettori.
Chi è al corrente dei pregressi del regista, più precisamente di suo padre, non avrà difficoltà a trovare un collegamento tra questi e la vicenda romanzata di Schlomo. Ricordo brevemente che il padre di Radu - ebreo fuggito da un lager nazista e rifugiatosi in Romania - onde evitare problemi con il regime comunista di Ceausescu cambiò il suo cognome ebraico Buchman in Mihaileanu. A Bucarest con questo cognome nacque Radu che nella capitale rumena visse fino all’età di 22 anni, dopodiché si trasferì con la famiglia in Israele per poi emigrare, alcuni anni dopo, a Parigi dove risiede tuttora.
Non è facile, non avendo avuto a che fare con simili esperienze, o comunque per chi, come il sottoscritto, non le ha vissute personalmente, addentrarsi nei meandri della mente di chi invece tali dinamiche le ha sperimentate in prima persona. Ogni sforzo, per improbo che sia, non potrà eguagliare le inconsce paure e i fantasmi che neppure la psicoanalisi è mai riuscita a debellare totalmente dalle menti che ne sono state vittime, ma… si può tentare, e questo film sarà di aiuto nella prova!
Il significato stesso del termine “Falasha” cioè “intrusi” lascia intendere di quale portata sia stato (e parzialmente lo sia ancora) il dramma di queste persone che si ritrovano paradossalmente emarginati nel loro nuovo paese dopo aver vissuto da rifugiati in quello precedente!
Il titolo (quello originale “Va, vis et deviens” ovvero “ Vai, vivi e diventa”) è riferito a Schlomo e ben riassume l’iter delle sue vicende che hanno inizio in un anonimo e desolato campo profughi sudanese. Qui la mamma biologica, conscia delle condizioni precarie che l’incerto futuro riserverà al figlio, coglie l’opportunità di un altro dramma, ovvero la morte di un bimbo ebreo, per affidare alla mamma di quest’ultimo il suo Schlomo attraverso una straziante quanto drammatica sequenza. Schlomo vive un intimo disagio nel dover fingere di essere ebreo, a tal scopo impara a memoria dalla sua nuova mamma i nomi di quelli che d’ora innanzi dovranno essere i propri avi, ma il suo cuore non è tranquillo, sa che la vera mamma è in vita e la coscienza di questa realtà alberga in lui tenendo viva la speranza di poterla un giorno ritrovare. Il film piuttosto prolisso e, a volte, eccessivamente melenso, scorre complessivamente in modo piacevole proprio grazie alle delicate tematiche di cui è intriso. Nel contesto israeliano queste ultime assumono una valenza del tutto particolare, una buona percentuale dei residenti è arrivata in seguito alla fuga da questa o quella persecuzione, quindi la consapevolezza di non essere ebreo, non essere orfano e per di più di colore sono per Schlomo motivi di turbamento che daranno origine, insieme alla morte (questa volta vera) per tisi della sua “seconda” mamma, a comprensibili azioni di ribellione, fino alla decisione, da parte dei responsabili del centro di accoglienza, di trovare per lui una famiglia adottiva.
Qui, seppur tra non facili traversie, Schlomo avrà modo non solo di realizzare le due “azioni “ del titolo italiano “Vai e Vivrai” (è andato ed è vissuto, azioni conseguenti non tanto a lui quanto a terze persone) ma di realizzare la terza azione (quella francese “deviens” omessa nel titolo italiano), la più importante in quanto derivante esclusivamente dalla sua volontà e capacità, cioè “diventare” colui che non avrebbe mai sperato di diventare!
Mihaileanu ci presenta un popolo, quello israeliano, che non si differenzia dagli altri, l’essere stati vittime di brutali discriminazioni nel corso della storia non esclude che al suo interno si trovino gli atteggiamenti più eterogenei, anche qui infatti non mancano espressioni di razzismo e intolleranza, e il padre di Sarah ne è un esempio eclatante. Vedendo il film (e ricordando “Train de Vie”) non ho potuto non pensare al famoso esperimento del ’71 organizzato dal dott. Philip Zimbardo alla Stanford University, attraverso il quale si ipotizza (sintetizzo brevemente) che la stragrande percentuale degli esseri umani, posti in un particolare contesto, potrebbe avere reazioni comportamentali totalmente diverse da quelle avute fino a quel momento. Questo potenziale e strabiliante risultato è stato pubblicato nel libro “ L’effetto Lucifero” e spiegherebbe la natura sadica così diffusa in alcuni regimi totalitari (nazismo e non solo). I collegamenti tra questo esperimento e qualsiasi realtà, compresa quella israeliana, sono ventilate (e con questo termine non intendo “manifeste” ma solo potenzialmente predisposte) in più sequenze, dall’intolleranza razziale delle altre mamme davanti alla scuola elementare, al razzismo già accennato del papà di Sarah, fino all’intolleranza religiosa delle frange ortodosse (tuttora presenti) che in più di un’occasione hanno cercato di espellere gli etiopi dal Paese. Schlomo però, esempio di modestia e intelligenza, riuscirà con l’aiuto della nuova famiglia a laurearsi in medicina e, indossando il camice di “Medici senza Frontiere”, ci concederà un potente finale carico di phatos nel momento in cui ritroverà l’anziana mamma ancora in vita in un campo profughi sudanese. Forse un po’ retorico ma di sicuro effetto per gli animi sensibili.
Il film si è aggiudicato alcuni premi, negli anni 2005/06, tra i quali miglior film al Festival di Vancouver 2005, ed è interpretato da attori non particolarmente noti ma tutti in linea con le loro parti. Le musiche di Armand Amar sono da ricordare in particolare per la vocalist che in alcune sequenze coadiuva efficacemente le già di per sé coinvolgenti scene.
Consigliabile a tutti, ma in particolare alle giovani generazioni.
Cenni storici.
La storia degli ebrei di colore etiopi (conosciuti come Falàsha, termine a volte impropriamente pronunciato con l’accento sulla ultima “a” che significa “rifugiati”) è davvero stupefacente e affonda le sue radici in un annebbiato passato risalente a oltre 2.500 anni fa; pare infatti che i Falasha siano i discendenti degli ebrei fuggiti in Egitto in seguito alla prima distruzione del Tempio nel 586 a.c. dopodiché, attraverso peripezie varie nel corso dei secoli, giungono e si stanziano in Etiopia dove subiscono ogni sorta di angherie e persecuzioni a causa delle quali molti di loro si convertono al Cristianesimo (ricordo che in Etiopia la popolazione è composta per il 60% da cristiani, per il 34% da mussulmani e da qualche migliaia di ebrei). Da allora i Falasha sognano di raggiungere la Terra Promessa, ma, solo in seguito al parere favorevole di due autorevoli rabbini (tuttora contestato dalle correnti ultraortodosse le quali sostengono che, discendendo dall’unione tra Salomone – ebreo - e la Regina di Saba - non ebrea -, non si tratti di veri ebrei in quanto non risulta rispettata la norma che sostiene l’ebraicità trasmessa dalla madre), il governo israeliano decise di organizzare l’immigrazione degli ebrei etiopi.
La storia italiana del fascismo si interseca in modo davvero paradossale con quella dei Falasha in quanto, durante l’occupazione italiana dell’Etiopia (nonostante la promulgazione delle leggi razziali del ’38, volte a un palese ruolo antisemita), Benito Mussolini decise di tutelare la piccola comunità per proteggerla dalle violenze e dagli abusi perpetrati in particolare dai mussulmani.
Dopo che nel 1970 una trentina di famiglie raggiunsero Israele prevalentemente a piedi attraverso peripezie indicibili, l’avvento al potere di Menghistu in Etiopia nel ’74 spinse negli anni a seguire un’elevata percentuale di ebrei a fuggire verso i campi profughi sudanesi da dove il governo israeliano, in collaborazione con la CIA, diede il via alle spettacolari operazioni "Mosè" e "Giosuè" nell’’84 e ’85 e "Salomone" nel ’91.
Attraverso queste spregiudicate manovre, organizzate segretamente dal Mossad, vennero trasferiti ben 130.000 ebrei, i due terzi dei quali nel corso della terza e ultima (in 36 ore 14.500 persone con 34 aerei) in cui vennero utilizzati, oltre ai C-130 dell’aviazione militare, nientemeno che alcuni Boeing B-747 Jumbo Jet della compagnia di bandiera israeliana ai quali erano stati tolti appositamente i sedili onde aumentarne la capienza (in un solo volo un B-747 trasportò ben 1.122 passeggeri!).
Purtroppo le aspettative non furono rosee per tutti; molti immigrati erano analfabeti e le notevoli difficoltà sono parzialmenti presenti ancora oggi a causa delle continue vessazioni e discriminazioni da parte delle frange più intolleranti.
Tuttavia un’esponente femminile della comunità Falasha è arrivata alla nomina di ambasciatrice israeliana ad Addis Abeba, e un’altra ha fatto parte del Knesset, il governo israeliano.
Ma il sogno della Terra Promessa dopo 2.500 anni si è avverato !
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta