Regia di Aleksandr Sokurov vedi scheda film
Nel Maggio del 1922 Lenin ebbe la prima emorragia cerebrale che gli provocò la paralisi del lato destro e grandi difficoltà a parlare. Si riprese e continuò imperterrito la sua attività speculativa. Ma il suo calvario era appena cominciato e nel Marzo del 1923 un'altra emorragia cerebrale lo rese del tutto incapace di essere autonomo. Visse ancora qualche mese, accudito dalla moglie e dalla sorella, per poi morire nel Gennaio del 1924 all'età di cinquantaquattro anni. Intanto le sorti della Russia vennero affidate a un triunvirato composto da Zionoviev, Kemenev e Stalin. Quest'ultimo divenne segratario del Partito Comunista.
E' in questo quadro storico che Aleksandr Sokurov ambienta il secondo capitolo della sua trilogia sul potere (dopo "Moloch" su Hitler e prima de "Il sole" sull'Imperatore giapponese Hirohito), un'opera tesa a tratteggiare la personalità di uomini che hanno fatto la storia e deciso la sorte di interi popoli nel momento in cui sono spogliati delle vestigia della loro incontrasta posizione di dominio, quando l'immersione nell'ordinaria quotidianetà li accomuna all'uomo "qualunque" e li normalizza al cospetto del mondo. Il potere e i potenti vengono "banalizzati" attraverso la rappresentazione delle loro umane debolezza, la nudità dei loro vizi. Sokurov si concentra su Lenin (Leonid Mozgovoj) dal momento in cui il logorio della malattia già si è impossessato di lui e fissa con precisione il rapporto che egli istaura con le cose che lo circondano, ogni suo gesto, il volto solcato dal dolore ma non ancora spento, stanco ma ancora lucido. Il momento del bagno e quello della passeggiata in aperta campagna, la colazione mattutina e la sofferenza che gli procura il suo male, riflettono la sopraggiunta condizione di impotenza, l'esautorazione di un ruolo sacralizzato dalla storia. Aiutato dalla moglie (Mariya Kuznetsova) e dalla sorella (Natalya Nikulenko), e attorniato da infermieri, medici e "spie" in un ambiente che somiglia a un'istituto di igiene mentale, il filosofo russo è avvinto dall'impossibilità di gestire autonomamente i suoi spazi di manovra e dal rimorso di essere partecipe dello stato di oppressione che sta prendendo corpo nel suo amato paese. A fargli visita viene anche Stalin (Sergei Razhuk)a cui chiede di porre fine al divieto che gli impedisce di scrivere e di telefonare. Ma già sa che non potrà ottenere nulla, che egli stesso è stato messo in una gabbia che lo limita ben più del suo male. Ha già capito che la forza di Stalin dipende dal suo isolamento fisico e mentale e le grida che emana sembrano più un moto di soffocata ribellione che il frutto della sua dolorosa malattia. Sono di fronte l'emblema di un'idea di rivoluzione pensata per il popolo e l'incarnazione di un potere che si autoalimenta attraverso l'oppressione esercitata sul popolo e l'esattezza della regia di Sokurov sta nel palesare la malattia di Lenin come l'inizio di una tirannia senza freni. E l'atmosfera rarefatta che contribuisce a rendere indistinta ogni cosa come l'evaporazione di altri, possibili, sviluppi della storia russa. Grande la prova di Leonid Mozgovoj (già interprete di Hitler in "Moloch") per un film di raffinata precisione pittorica.
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