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Giochi nell'acqua

Regia di Peter Greenaway vedi scheda film

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La recensione su Giochi nell'acqua

di cheftony
5 stelle

“How many did you count?”
“100.”
“There are more than 100.”
“I know.”
“Why did you stop?”
“100 is enough! Once you’ve counted a hundred, all the other hundreds are the same!”

 

 

Cissie Colpitts (Joan Plowright) annega il marito Jake, adultero e colto sul fatto nella vasca da bagno, approfittando della sua ubriachezza. Il coroner locale, Madgett (Bernard Hill), per quanto scocciato, è disposto a coprire l’omicidio dichiarando la morte per annegamento susseguente ad infarto, sperando di mettere le mani sulla vedova a tempo opportuno.
Il circondario, intanto, si intrattiene con numerosi e complicatissimi giochi di squadra all’aperto, le cui regole sono descritte dal figlio di Madgett, Smut (Jason Edwards), tredicenne invaghito di una ragazzina che salta la corda sulla soglia di casa contando le stelle fino a cento.
Nonostante i sospetti dei cugini del defunto, la catena prosegue quando la figlia di Cissie Colpitts, che di nome fa anche lei Cissie (Juliet Stevenson), annega il marito Hardy, sgradevole, incapace di soddisfarla e di nuotare. Parimenti, Madgett copre anche questo misfatto, nonostante i suoi tentativi con la Cissie Colpitts più anziana non avessero sortito alcun successo. Trascorso giusto il tempo di celebrare il secondo funerale ed incassare il secondo fallimento, il coroner vedrà ripetersi la storia quando la terza Cissie Colpitts (Joely Richardson), diciannovenne e fresca moglie dell’idraulico disoccupato Bellamy, pone fine al suo breve matrimonio con un annegamento…

 

“When the movie was over, I was not sure why Greenaway made it.” [Roger Ebert]

 

“Drowning by numbers” è un gioco di parole, basato sui libri per bambini da colorare in base ad un codice che associa i colori ai numeri presenti negli spazi. Painting by numbers, per l’appunto. Drowning significa, invece, affogare.

 

Joely Richardson, Juliet Stevenson, Bernard Hill, Joan Plowright

Giochi nell'acqua (1988): Joely Richardson, Juliet Stevenson, Bernard Hill, Joan Plowright

 

Con questo film, Peter Greenaway porta avanti ed esplora sempre più sfacciatamente il suo cinema antinarrativo, che, se da un punto di vista tematico rimane velatamente imperniato su sesso e morte, sul piano formale diventa sempre più calcolato e ostico. La trama, che mai ha interessato il regista britannico, non fa che ripetersi tre volte variando alcuni elementi, quali l’età della Cissie Colpitts di turno (dalla più anziana alla più giovane, nell’ordine) e la location dell’affogamento (vasca da bagno, mare, piscina).

Il filo conduttore non è tanto rappresentato da un coroner che, credutosi predatore, si riscopre innocuo e finanche preda, quanto piuttosto da suo figlio Smut; il ragazzino, piccolo alter ego del regista, scorrazza liberamente in un tripudio di simbolismi, ossessionato dal recitare le regole di elaborati giochi a squadre, dal conteggio di qualunque cosa (le foglie sugli alberi, per esempio, ma anche gli animali morti), dalle celebrazioni di ogni morte attraverso fuochi d’artificio. Anche Smut, preadolescente e finalmente sensibile all’attrazione per la ragazza che salta la corda, sarà vittima di una forma di soggiogamento, di automutilazione, di annullamento di sé. Un’altra fondamentale fonte di raccordo in “Drowning by numbers” è rappresentata dai numeri da 1 a 100, che appaiono in scena in maniera quasi sequenziale e nei modi più disparati: su pettorine, porte, mucche, etichette, soprammobili. Alcuni palesi ed altri nascosti, ognuno di questi numeri contribuisce a scandire il ritmo per lo spettatore. Nel suo rifiuto per la narrazione, Greenaway dà così una specie di ordine al caos, lo manipola e rende chiaro che al numero 100 tutto finirà.
“Drowning by numbers” è ambientato nella contea del Suffolk, non lontano dall’Essex dove Greenaway, gallese di nascita, ha trascorso la sua gioventù. Il modo in cui il Suffolk viene raffigurato (con la sua costa e con i suoi spazi verdi incontaminati) e parzialmente trasfigurato da giochi di luci artificiali rende vagamente felliniano questo film. La composizione delle scene rimanda ad un numero infinito di pittori, in particolar modo ai paesaggisti di soggetti pastorali; la ricostruzione più evidente, ad ogni modo, è quella del “Cristo morto” di Mantegna in occasione della morte di Hardy. Per quanto la ricerca pittorica sia sempre più centrale nella sua opera, Greenaway qui usa qualche dolly in più rispetto all’esasperata e architetturale fissità del precedente “The Belly of an Architect”. Le musiche di Michael Nyman, di spicco come sempre, sono basate su una sinfonia di Mozart.
Per quanto visivamente impeccabile, il cinema di Greenaway si fa sempre più atipico e cervellotico, mostrando i primi scricchiolii già dal succitato lavoro precedente, comunque sostenuto da un enorme Brian Dennehy e dalla magnifica fotografia di Roma. “Drowning by numbers” è un enorme gioco intellettualistico, raffinato e pretenzioso, in cui l’occhio dello spettatore cerca continui riferimenti e il cuore evita coinvolgimenti di alcun tipo. Ma l’obiettivo del regista britannico, autodefinitosi “pittore su celluloide”, è proprio questo. Prendere o lasciare.

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