Regia di Peter Greenaway vedi scheda film
Il titolo originale di Giochi nell’acqua, Drowning by Numbers (ovvero, “annegamento coi numeri”) prende spunto da cosiddetto painting by numbers, sorta di puzzle che consiste nel colorare le caselle di un disegno con i colori che, via via, vengono indicati. Fin dal titolo, quindi, il regista Peter Greenaway colloca il suo film – quarto, se si considerano esclusivamente i lungometraggi di finzione - in un’ottica prettamente ludica. Giochi nell’acqua è, infatti, essenzialmente (o, per meglio dire, a prima vista) un mero gioco intellettuale. Lo spettatore può scegliere grossomodo due strade da percorrere – due sentieri che si biforcano: seguire il film (cui Greenaway riduce ai minimi termini la tensione narrativa), oppure avventurarsi, attraverso una vera e propria selva di citazioni colte (perlopiù pittoriche), alla ricerca di quei numeri che, dall’1 al 100, vengono inseriti nelle inquadrature del film. Non sempre sono evidenti (anzi, a volte è forte il dubbio della loro assenza), ma Greenaway, sadicamente, ne evidenzia alcuni per celarne altri, alimentando costantemente l’interesse dello spettatore per il gioco - e, di conseguenza, facendogli dimenticare la narrazione.
Sì, perché per Greenaway il cinema è viziato da un’egemonia “narrativa”. «Raccontare storie non mi interessa». E l’inverosimilità dei plot dei suoi film ne sono la prova. In Giochi nell’acqua, tre donne (madre, figlia, nipote), tutte con lo stesso nome (Cissie Colpitts), uccidono rispettivamente i loro mariti/amanti nell’acqua. A scandire gli eventi v’è Smut (sorta di alter-ego del regista), un ragazzino dedito alla classificazione delle cose, e amico di quella bambina che salta la corda durante il film. L’ossessione di dar ordine al caos (la classificazione) è una delle tematiche forti di tutto il cinema greenawayano. Un’ossessione che, per il regista, resta pura (ma affascinante) utopia. Il codice numerico di Giochi nell’acqua ne è un perfetto esempio: «fingere che i numeri non siano l’umile creazione dell’uomo, ma l’esatto linguaggio dell’universo, e che per ciò stesso possano svelare il segreto delle cose, è confortante, terrificante e affascinante».
Fingere. Greenaway è il primo che denuncia la fallacia del suo mondo enciclopedico. Il caos resterà caos anche attraverso la più perfetta delle classificazioni. Esso è il labirinto borgesiano, è la Biblioteca di Babele. Dunque, forse, è meglio crogiolarsi attraverso le mille citazioni possibili dell’opera d’arte, costruire senza sosta sul già esistente (Giochi nell’acqua chiama in causa, tra gli altri, Rubens, De Chirico, Bruegel, Cox, Fuseli, Van Gogh, William Holman Hunt, oltreché Mozart per la partitura musicale degli omicidi, affidata al solito, superbo Michael Nyman). Film, dunque, postmoderno, postnarrativo (come afferma Bogani nel “castoro” dedicato al regista), che sembra nascondere, sotto la fitta rete citazionista, un’anima disperata. Un timore per il mistero, ben rappresentato dalla Donna, figura sfuggente, fantastmatica e omicida. «Giochi nell’acqua, in realtà, è un film sull’insoddisfazione femminile a ogni età. Ed è anche un film sulla solidarietà fra donne, sul loro legame ombelicale, che dà luogo alla metafora di tre generazioni della stessa famiglia».
Uno sguardo, quello di Greenaway, dunque tutt’altro che confortante, “sicuro”, ma che svela continuamente la propria fragilità di fondo. Una vulnerabilità che le sue immagini, sempre così perfette, difficilmente lasciano trasparire.
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