Regia di Marc Rothemund vedi scheda film
Un film letterario, che mescola brillantemente l’ironico realismo di Brecht con il composto romanticismo di Schiller. La ragione domina la scena, sublimando la paura ed il dolore, e riservando i toni accesi solo alla parentesi del processo-farsa: la figura del giudice è un misto di caricatura espressionista alla Georg Grosz e di parodia teatrale alla Dürrenmatt, e pare riprodurre, nell’intonazione della voce, nell’espressione del volto e nei gesti, le nevrosi di Hitler nei giorni del declino. Il suo eloquio è una retorica forbita portata all’eccesso, e perciò ridicola e grottesca. In questo film – apparentemente spento ed artificioso – il punto di forza è proprio l’uso della lingua, e, per questo motivo, lo si può apprezzare appieno forse solo nella versione originale tedesca. L’interrogatorio di Sophie Scholl da parte dell’ufficiale della Gestapo Robert Mohr è un capolavoro di logica, dialettica e proprietà di linguaggio; le risposte di lei formano un discorso freddo, nitido e rigoroso, che non fa una grinza, e torna splendidamente su se stesso. “La rosa bianca” è un’opera squisitamente germanica, improntata ad un decorosa essenzialità e ad uno splendente disincanto. Il tema della morte è trattato con delicatezza e discrezione, ma senza falsi pudori. Una cortina di buio separa lo spettatore dall’immagine della triplice esecuzione, ma il rumore della ghigliottina è ben udibile, così come lo è l’estremo grido “Es lebe di Freiheit!” di Hans Scholl: sono i suoni e le parole, ancora una volta, a caratterizzare il momento, riassumendo tutto il senso di un consapevole e dignitoso sacrificio.
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