Regia di Sydney Pollack vedi scheda film
L’intrigo internazionale, alla fine, trova il suo set naturale: le architetture maestose e simboliche delle Nazioni Unite. The Interpreter è il primo film girato all’interno del Palazzo di vetro e questo sarebbe un aneddoto, un primato di cronaca se Sydney Pollack si fosse limitato a utilizzare i corridoi, le scale, la sala delle Assemblee generali come quinta teatrale del suo teso, solido, compatto, tonico thriller politico. Come sanno i registi bravi e intelligenti, un luogo, un ambiente, un edificio, una stanza possono e devono diventare un catalizzatore di energie, di tensioni, di misteri. Devono e possono assumere il ruolo di un “personaggio” in muratura. Il palazzo delle Nazioni Unite è il luogo di lavoro di Silvia Broome (Kidman), interprete di indecifrabili idiomi africani, ed è, per l’agente dei servizi segreti Tobin (Penn), il territorio da sorvegliare e tenere al sicuro quando arrivano capi di Stato o importanti personalità politiche. Una sera, rientrata nel Palazzo deserto, la protagonista ascolta, per caso, due voci sussurranti e scopre che si sta preparando un attentato contro Zuwanie, un tempo eroe e liberatore dello stato africano di Matobo e ora leader sanguinario e paranoico. Questa scoperta trasforma Silvia in un bersaglio da eliminare e Tobin ha l’incarico di proteggerla. La sua è una protezione piena di dubbi. Si interroga, infatti, sul passato della donna proprio a Matobo, sulle sue origini, sulla sua famiglia cancellata dalle mine. Tra i due non nasce, per fortuna, una convenzionale love story. E molti altri risvolti della trama non sono prevedibili. La loro intesa contrastata, venata di sospetti e contraddittoria, ha altri punti cardinali. Un “danno” diverso ha minato la loro psicologia e la loro sensibilità: la donna che sapeva troppo e confessava, di se stessa, poco e l’uomo, piegato da dolore e dal desiderio di vendetta, perché non si rende conto, come si dice in uno dei tanti bei dialoghi, che «la vendetta è una forma pigra di lutto». Pollack e i suoi sceneggiatori (Randolph, Frank e Zaillian) costruiscono con cura e perizia drammaturgica questo thriller che non ha bisogno di estenuanti inseguimenti di automobili o di scene “esplosive” con rutilanti fuochi d’artificio (un autobus salta in aria, ma prima che questo accada si lavora di cesello sui meccanismi della suspense). Si sentono le onde concentriche dell’attualità politica, si sceglie un finale coerente e plausibile, si dirigono benissimo due attori complessi. La qualifica, talvolta svilita, di regista riacquista uno dei suoi significati più genuini.
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