Regia di Hany Abu-Assad vedi scheda film
La calma e la lucidità applicate alla "follia" del martirio e alla "cecità" della fede religiosa. Nell'animo del kamikaze palestinese Said, l'umiliazione – della sua persona e del suo popolo – ha scarnificato l'umana logica del dubbio, riducendo i percorsi mentali ad un singolo filo che corre dritto verso l'estremo sacrificio. Afferrare la morte è l'unica disperata via di uscita da una vita svuotata, che sfugge inesorabilmente di mano. Quella che, per l'amico Kaled, è una strategia militare – e, in quanto tale, passibile di revisione razionale – per Said è, invece, una necessità morale, maturata da una insopprimibile voglia di riscatto, di fronte alla propria coscienza e agli occhi del mondo. Prigioniero a vita di un campo profughi, e figlio di un collaborazionista, la sua morte vuole essere la dimostrazione che all'oppressione che segrega i corpi e piega le anime ci si può, comunque, "eroicamente" ribellare. Ciononostante, "Paradise Now" non è un manifesto ideologico, né l'apologia di un crimine; è piuttosto, l'osservazione distaccata ma attenta di uno stato psicologico che, indipendentemente dal contesto storico e dalle vicende politiche, ha trasformato un uomo, più che nello strumento di un disegno rivoluzionario, nell'incarnazione di un tragico paradosso, capace di autodefinirsi solo mediante l'annientamento di sé e degli altri.
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