Regia di Hany Abu-Assad vedi scheda film
Co-produzione che coinvolge sia Paesi europei sia una casa di produzione israeliana, al fine di finanziare un film di un palestinese (ma di passaporto israeliano), filo-palestinese e che si è proposto agli oscar (senza successo) come film non di uno Stato straniero ma di un popolo straniero, benché senza terra. Sarà il potere dell’arte che va oltre il diritto positivo, saranno le indubbie qualità di “Paradise now”, fatto sta che Abu-Assad (al primo lungometraggio) dimostra di sapere fare il suo mestiere, realizzando un ritratto commovente e sentito della condizione di un popolo che vive su una terra occupata. Sia nello stile, curato e rigoroso, ma non scolastico (ed opportunamente in pellicola), sia nel contenuto, che si sofferma sulla disperazione e sull’impotenza dei palestinesi e sull’assurdità/ineluttabilità/inutilità dei così detti “suicide-bombers”. Un film che ha una sua prospettiva ed individua chiaramente chi sono i nemici, ma che non risparmia (auto)critiche e riflessioni su come affrontare una situazione di sudditanza e d’ingiustizia. Un film che non indaga sui fatti, ma fa leva su emozioni e riflessioni e che si consiglia di vedere in combinazione con “Munich” di Spielberg, giacché, anche se precedente, possono individuarsi numerosi paralleli con cui osservare i due lati della medaglia. La donna è presentata come soggetto positivo: amorevole, saggia e salvatrice, e non come oggetto. Girato tutto in esterni: a Nablus e a Tel Aviv. Osteggiato da alcuni gruppi fondamentalisti palestinesi che hanno anche rapito un membro della Troupe. ***
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