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Paradise Now

Regia di Hany Abu-Assad vedi scheda film

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La recensione su Paradise Now

di Peppe Comune
7 stelle

Said (Kais Nashif) e Khaled (Ali Suliman) sono due ragazzi palestinesi che vivono a Nablus. Vengono scelti per organizzare un attacco suicida a Tel Aviv e benchè non siano dei fanatici fondamentalisti accettano di buon grado di portare a compimento la missione. Said e Khaled amano il loro paese e credono che quella sia l’unica modalità di lotta in possesso del popolo palestinese per cercare di vincere la guerra contro Israele. Trascorrono le ore che precedono l’operazione facendo le cose di sempre, tenendo segreta la cosa e meditando sull’utilità effettiva della loro scelta. Said passa molto tempo con Suha (Lubna Azabal), una ragazza di idee progressiste che gli piace molto, figlia di un eroe della resistenza palestinese tornata in patria dopo un periodo di studio trascorso in Francia. Arriva il giorno previsto per l’attentato, Said e Khaled sono pronti, indottrinati a dovere dai capi superiori. Ma qualcosa del piano che avrebbe dovuto portarli a Tel Aviv, a stretto contatto con un nutrito numero di militari dell’esercito israeliano, va storto.

 

 

 

Comincio subito col dire che “Paradise Now” del regista palestinese Hany Abu-Assad, prima di essere un buon film, è un opera coraggiosamente necessaria. Perché non è facile presentarsi nel campo minato della faida israelo-palestinese e farlo partendo dal punto di vista di questi ultimi. Il rischio minore è quello di apparire retorico, ben più grave, correre il rischio di produrre un irragionevole spirito partigiano. Ma capire non significa giustificare, conoscere le cause prime non significa accettarne come necessari gli effetti prodotti, tutt’altro : dati gli effetti indesiderati, peraltro abbondantemente conosciuti, si può lavorare per disinnescarne le cause. Ed è quello che cerca di fare il film, partendo dal delinearci ottimamente il carattere dei due ragazzi scelti per il martirio i quali, più che apparire come dei fanatici fondamentalisti accecati dall’odio verso il “nemico eterno”, sembrano delle pedine inserite in un quadro sociale ben delineato, un quadro che non offre loro altra possibilità che di combattere con le uniche armi a loro disposizione. Questo serve ad accrescere per contrasto il grado di pericolosità degli attacchi dinamitardi che i palestinesi sono in grado di infliggere ad Israele, che è tanto maggiore quanto più si fa notare come è inserito all’interno di un contesto sociale di ordinaria normalità. Può diventare una triste abitudine quella di predisporsi a rendersi utile per un attacco suicida, perché chi impara a subire la morte, fosse solo per una reazione istintiva, imparerà anche a volerla restituire. Detto altrimenti, il film non vuole affatto trasformare dei “martiri per la resistenza” in dei santini d’esportazione, ma mostrare i moventi psicologici che possono stare dietro un gesto così estremo. “Se loro recitano il ruolo del carnefice e della vittima, io non ho altra scelta che essere vittima. E un assassino, per reazione”, dice Said, che qui come altrove (sempre parlando con Suha), dimostra di incarnare maggiormente rispetto a Khaled l’anima meditabonda della deriva terrorista, il riflesso teorico della resistenza palestinese. Lui convive con l’ombra di un padre collaborazionista e questo lo porta a cercare le ragioni profonde che rendono legittima la sua scelta azionista. “Il brutto è  sfruttare i deboli per farne dei collaborazionisti e indebolire così la lotta di resistenza”, dice ancora. Khaled è più conseguenziale, più diretto, meno riflessivo e problematico. É figlio di una generazione a cui sono stati negati i sogni, agire è l’unica cosa che sa e può fare. Ma insieme incarnano una cosa fondamentale, quella di aver scelto la lotta armata, più perché non intravedono forme di resistenza alternative, che per intima convinzione o perché hanno un’indole criminale. Sono le modalità dell’occupazione a determinare il tipo di resistenza da adottare, è lo stato di perenne cattività in cui sono costretti a vivere i palestinesi ad esacerbare gli animi ben oltre il dovuto. É dura vivere una prigione eterna, essere considerati dei carnefici quando si è innanzitutto delle vittime, sentirsi ospiti a casa propria. “L’occupazione ci ricorda ogni giorno che senza dignità l’uomo è niente”, dice sempre Said.

Pur partendo da un punto di vista particolare, il film pare intimamente sottintendere un rapporto simmetrico tra Israele e Palestina, retto sulla sicurezza delle reciproche popolazioni e sul vicendevole riconoscimento dei rispettivi confini territoriali. Ma è proprio il senso di sicurezza a mancare in quei territori, come la pari legittimità Statuale certificata inequivocabilmente a livello internazionale. La difesa fin troppo zelante di Israele dei propri interessi nazionali ha nel tempo prodotto nei Palestinesi un complesso di inferiorità socio-politica che sentono come  una cosa profondamente ingiusta. Da un quadro sociale retto da tali premesse psicologiche, è facile supporre che la diffidenza possa trasformarsi in odio reciproco, che ognuno radicalizzi le proprie “giustificate” posizioni, che dalla totale asimmetria delle forze in campo si generi una società militarizzata dove ognuno finisce per combatte con le armi più idonee che ha a sua disposizione. Said e Khaled incarnano tutto il peso di questa debolezza psicologica, in una città confinata come Nablus, loro sono disposti anche al sacrificio estremo se questo può servire a riequilibrare le sorti della contesa. Da un lato, si sceglie il martirio per essere uguali agli israeliani almeno nella morte, dall’altro lato, nasce la convinzione che solo attraverso la morte si può dare un valore alla propria vita.

Ma Hany Abu-Assad non piega affatto il film all’ineluttabilità generata da questa iniqua condizione psicologica, e propone forme di resistenza fattive svincolate dalla necessità di abbracciare metodiche suicide. E lo fa seguendo due strade. La prima, più diretta, attraverso la figura di Shua, che perora delle soluzioni pacifiche al conflitto contro lo spargimento di altro sangue. L’altra, più implicita invece, alleggerendo il contenuto grave che regge la storia attraverso inserti narrativi che ricalcano atmosfere da commedia. Come quando alcuni intoppi banali impediscono il “sacro rituale” del video-testamento fatto dai martiri come lascito estremo per i propri familiari. O (soprattutto) quando Said e Shua entrano in un negozio per aggiustare un orologio e ci viene mostrato come il gestore del negozio fa affari attraverso il commercio di questi video-testamenti, che possono essere venduti o solo noleggiati, come preferisce il cliente, a prezzi variabili, “a seconda di se si tratta di un martire o di un collaborazionista”. Espedienti narrativi che, evidentemente, sono serviti a mettere in evidenza un po’ di insana ipocrisia che aleggia dietro tanto ostentato ideologismo, a togliergli quella gravità di stampo religioso attraverso la mera mercificazione della “memoria dei martiri per la resistenza”. Ecco, il film sembra suggerirci che i martiri immolati per la causa palestinese, piuttosto che fortificare la lotta di resistenza contro Israele, rischiano di aumentare uno spirito fatalista che si autoalimenta attraverso la riproduzione in serie di video-testamenti presi a noleggio.  Si cercano e si celebrano sempre nuovi martiri per tener vivo uno spirito sociale e coeso un popolo malfermo, non per giungere a delle definitive soluzioni politiche. É comunque tutto il film a rimanere su tonalità sostanzialmente leggere, a scorrere brioso  nonostante il tema trattato. Un film che si fa guardare senza essere sopraffatti da qualche forma di ricatto morale. Come a voler ribadire, anche attraverso l’adozione di uno stile specifico, che si voleva mostrare un punto di vista senza fornirgli degli alibi. Come scritto all’inizio, “Paradise Now”, prima di essere un buon film, è un’opera necessaria.

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