Regia di Antonio Margheriti vedi scheda film
Il film è uno dei capolavori gotici italiani della gloriosa epoca dei Bava, dei Freda e quindi dei Margheriti. Prima ancora della rivoluzione argentiana (soggettiva, sensualità o sessualità dell’omicidio, l’illusione dello sguardo, l’estetica gore e splatter, ecc) Antonio Margheriti aveva già impostato alcuni nuovi luoghi del genere horror, come una certa violenza abbinata ad argomenti e turbe sessuali, l’attenzione alle luci e alle ombre così come ai colori, e soprattutto la serialità dei brutali omicidi. Questa, seppur solo abbozzata, già rende l’idea di un film che punta l’attenzione sia dell’autore che dello spettatore sui delitti e la loro estetica più che alla plausibilità della storia. Sarà poi Bava con “Sei Donne Per l’Assassino” dell’anno seguente a codificare ciò che oggi si chiama slasher-movie, lasciando poi ad Argento e Martino il compito di perfezionare le coordinate estetiche e la nuova grammatica del linguaggio horror con i loro lavori dei primi ’70 che, passando poi dal Bob Clarke di “Black Christmas”, diventa a tutti gli effetti lo slasher contemporaneo. Nel percorso codificativo del filone trovano importanza miliare anche “Halloween” di John Carpenter, “Friday the 13th” di Cunningam e a giochi già fatti, il “Nightmare on Elm Street” di Wes Craven che apporta non poche novità rinvigorendo il genere.
Il film di Margheriti invece rimane ancorato al gotico classico della Hammer e dei film di Cormac, ma riesce ugualmente ad imprimere uno stile personale grazie all’artigianalità della messa in scena che, con il suo valore plastico, ci impressiona tanto quanto un vecchio romanzo nero 800centesco che prende vita davanti ai nostri occhi. Come al solito i particolari degli interni sono curatissimi e la fotografia li esalta con colori “cartacei”, di vecchie pagine ingiallite, proprio come se fosse uno splendito vecchio romanzo d’epoca. I personaggi secondari sono chiaramente più approssimativi dei principali, ma è un’aspetto tipico dei nostri film di genere che tendono appunto ad una cura precisa della componente visiva/visionaria della pellicola, tralasciando dialoghi, plausibilità, nessi logici e quantaltro arrivi dalla scuola classica americana. Ma su tutti si staglia chiaramente il mostro di turno: il Giustiziere. La sua misse è affascinante tanto quanto quella del Dottor Freudstein di Lucio Fulci, che insieme ad altre celebri maschere dell’horror nostrano sanno ancora oggi inquietare per il loro chiaro e diretto impatto immaginifico, o direi anche proprio fisico. Christopher Lee, insolitamente buono e remissivo, aiuta a calare sulla storia quel velo di decadenza, cara all’horror quanto al gotico, che dà a tutto il film quell’aspetto di avventura onirica abbandonata ai caldi sensi di un tempo e di un’epoca solo interiorizzabili.
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